domenica 12 febbraio 2017
Sinora il neo-presidente ha prodotto una raffica di ordini esecutivi e veicolato su Twitter la sua rabbia (e le sue gaffe). Dichiarando guerra alla stampa
Donald, la «bulimia decisionista» e la democrazia
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«Chiunque abbia potere – scriveva Montesquieu nel 1748 nel suo De l’esprit des lois – è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere». Principio sacrosanto, che finora ha quasi sempre ben funzionato nella democrazia americana, ma che con il nuovo presidente necessita, quantomeno, di urgente manutenzione. Difficile infatti star dietro allo slalom vertiginoso fra verità e mezze bugie di Donald Trump.

Il quale si muove a zig zag, con proclami estremi, annunci esplosivi, ritirate subitanee, smentendo ciò che i suoi portavoce confermavano mezz’ora prima, raddoppiando la posta – come nel caso del bando all’immigrazione incontrollata – o svicolando dai propositi che hanno cementato il suo successo elettorale (guerra commerciale senza quartiere alla Cina, massimo appoggio a Israele sull’espansione delle colonie). Il tutto – fino a questo momento – in quella bolla virtuale in cui il potere del presidente, in attesa che il Congresso convalidi tutte le nomine da lui proposte, si avvale essenzialmente degli executive orders (letteralmente «ordini esecutivi») che hanno forza di legge per gli organismi federali.

Nei primi sette giorni del suo mandato, cioè a partire dal 20 gennaio, Donald Trump ne ha firmati ben 17: da quello che smantella il controverso Obamacare al ripristino della “Mexico City Policy” (ovvero il provvedimento che blocca i finanziamenti federali alle organizzazioni pro-aborto, originariamente introdotto nel 1984 da Ronald Reagan, cancellato da Bill Clinton, reintrodotto da George W.Bush e annullato ancora da Barack Obama), dalla denuncia dell’accordo transpacifico Ttp all’autorizzazione alla pianificazione del muro anti-clandestini lungo frontiera con il Messico, fino – appunto – al divieto di ingresso per gli immigrati di sette Paesi a maggioranza musulmana del Medio Oriente e del Nordafrica.

L’arma d’elezione di Trump è Twitter, che veicola istantaneamente il suo pensiero (e non di rado le sue gaffe): si va da quel minaccioso «See you in Court, the security of the nation is at stake!» («Ci vediamo in tribunale, la sicurezza del Paese è in pericolo!»), dopo che un giudice federale di Seattle aveva bloccato il suo ordine esecutivo sull’immigrazione, alla protesta contro le lungaggini del Congresso (8 febbraio: «È vergognoso che il mio Gabinetto non sia ancora completo: è il ritardo più consistente nella storia del nostro Paese, ed è tutta colpa dell’ostruzionismo democratico»), alla stizza (irrituale per un presidente) per il presunto boicottaggio commerciale da parte di una catena di grandi magazzini nei confronti della figlia Ivanka («Mia figlia Ivanka è stata trattata in maniera così ingiusta da Nordstrom.

Lei è una grande persona: mi spinge sempre a fare la cosa giusta! Terribile!»). Tra un tweet e l’altro si interpongono le Corti, vera e propria museruola – la forza della democrazia americana sta soprattutto nell’efficacia del bilanciamento dei poteri – di fronte alla bulimia decisionista del presidente. Il che non ha impedito a Trump di ingaggiare non uno ma due conflitti – virtuali e non – molto pericolosi per la tenuta di strada della neonata Amministrazione: quello con le Corti di Giustizia e quello con la grande stampa. «Un giudice apre le porte del Paese ai potenziali terroristi.

Una decisione terribile!», twitta, per poi attaccare le «fake news» (ovvero le false notizie, le “bufale” come si usa dire) di cui sarebbero responsabili i quotidiani e i network che lo criticano. Compito facile per The Donald: non stiamo forse inaugurando l’era della post-verità, neologismo – quel “Post-Truth” – santificato perfino dal celebratissimo Oxford Dictionary che attesta come per molti la verità sia oramai una variabile indipendente? Su una questione tuttavia Trump ha senz’altro ragione: la cecità della grande stampa liberal che in campagna elettorale non riuscì (o più probabilmente non volle) a fotografare il malcontento della middle class e la predisposizione di milioni di americani a rivoltarsi contro le élite, di cui Hillary Clinton era un perfetto quanto impresentabile campione. Implacabile (e feroce) il suo tweet: «Il New York Times era già stato costretto a chiedere scusa ai propri abbonati per il pessimo servizio reso sulla mia vittoria. Ora però stanno peggiorando!». La guerra dei tweet e delle Corti è solo all’inizio. In attesa che Trump cominci davvero a governare.

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