domenica 3 marzo 2019
Il nuovo negoziato, partito mercoledì tra il governo di Daniel Ortega e l’opposizione per mettere fine a 10 mesi di crisi, vive un rallentamento Il mediatore Tünnermann: «È una grande occasione». Nella foto un ragazzo mascherato sfida la polizia nel centro di Managua durante un corteo del settembre scorso (Ansa)

Il nuovo negoziato, partito mercoledì tra il governo di Daniel Ortega e l’opposizione per mettere fine a 10 mesi di crisi, vive un rallentamento Il mediatore Tünnermann: «È una grande occasione». Nella foto un ragazzo mascherato sfida la polizia nel centro di Managua durante un corteo del settembre scorso (Ansa)

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«Non c’è altra via al dialogo. Il Nicaragua vive una crisi politica. Occorre, dunque, una risposta politica. Il pugno di ferro del governo peggiora solo le cose. Ma sono ottimista. Magari, un giorno, Daniel Ortega attraverserà la strada – abitiamo a due passi – e entrerà da quella porta come fece 29 anni fa». Ritto sulla sedia scura del soggiorno della villetta del quartiere di El Carmen di Managua, Carlos Tünnermann, da sempre coscienza critica della nazione, ha pronunciato queste parole con voce flebile ma ferma un mese fa. Allora, con il Nicaragua militarizzato, le raffiche quotidiane di arresti, la censura opprimente, la sua sembrava un’utopia. E, invece, da mercoledì a venerdì, una delegazione del governo ha incontrato, a porte chiuse, i 19 rappresentanti scelti dall'opposizione civile – tra cui Tünnermann – per cercare di riannodare i fili del negoziato spezzato sette mesi fa. A fare da testimone il cardinale Leopoldo Brenes e dal nunzio, Stanislaw Waldemar Sommertag.

La sfida è ardua. La prima tornata – tre giorni di riunioni non stop a porte chiuse – è finita senza nemmeno un accordo previo sulle regole della trattativa: l’esecutivo – secondo fonti ben informate – continua a rifiutare la presenza al tavolo di garanti internazionali, come l’Organizzazione degli Stati americani (Osa) o l’Onu. Eppure gli incaricati non cedono: lunedì 4 marzo il nuovo appuntamento.

«È una grande occasione. Spero che Daniel Ortega, nonostante la proverbiale testardaggine, se ne renda conto», sottolinea Tünnermann, che lo conosce bene. I due sono stati compagni di lotta nel Fronte sandinista contro la feroce dittatura del clan Somoza. Dopo il trionfo del 1979, Tünnermann è stato ministro dell’Educazione e mediatore a Washington nel momento di massima frizione fra i due Paesi. All'inizio del 1990, però, l’ex accademico è stato il primo a lasciare il Fronte, in seguito alla cosiddetta “pentolaccia”: il pacchetto di leggi che assegnava ai dirigenti del partito le proprietà confiscate ai seguaci della precedente dittatura. Molti altri l’avrebbero seguito. «Ortega è venuto a trovarmi per chiedermi di ripensarci». Tünnermann non l’ha fatto. Anzi, negli anni, è diventato sempre più critico nei confronti del leader, tornato al potere nel 2007, e del suo crescente autoritarismo. Quando la rabbia popolare contro il “nuovo Somoza” è esplosa nell'insurrezione pacifica di aprile, l’ex ministro s’è schierato dalla parte dei manifestanti che sfidavano polizia e paramilitari al grido: «Dimissioni ». Insieme a esponenti di vari gruppi sociali, ha creato l’Alleanza civica. Non un partito, data la scarsa credibilità di cui godono le formazioni dell’opposizione ufficiale. Bensì una forza civile di persone dei differenti settori sociali – studenti, imprenditori, contadini intellettuali –, protagonisti della rivolta. È stata quest’ultima a confrontarsi con il governo nel primo intento di dialogo, mediato dalla Chiesa locale su richiesta delle parti.

La furia della “pulizia” orteguista, però, ha messo fine a quel negoziato. Il 13 luglio, dopo un faticoso compromesso, i manifestanti avevano iniziato a rimuovere in modo pacifico le prime barricate, a partire da quella di Juigalpa. Il giorno successivo, nella città è scattata la “caccia” ai ribelli, arrestati in massa. Poi è toccato a Masaya, alle porte di Managua. «Sono arrivati all’alba. Il cappellano ha suonato le campane per avvertire i ragazzi, in modo che scappassero. Così si sono vendicati. Hanno assaltato la chiesa, ci hanno tenuti prigionieri per due giorni, mi hanno pestato fin quando non sono svenuto», racconta un sacerdote di Masaya che chiede di non essere identificato. «Sa, mi sorvegliano », afferma l’uomo, ancora convalescente. «Abbiamo dovuto curare i feriti di nascosto. Li facevamo entrare dal retro», afferma un medico, dopo aver chiuso la porta dello studio. Per parlarci si deve fare la fila insieme ai pazienti: niente deve far sospettare che si tratti di un’intervista. «Ero incaricata di portare le medicine ai manifestanti asserragliati nelle loro trincee improvvisate. Le nascondevo in un sacchetto di plastica, sotto la spesa, e andavo all'incrocio con il quartiere Pauses Bajos. Là veniva qualcuno a prenderle», aggiunge in fretta l’assistente, entrata con la scusa di portare degli strumenti.

Sono stati giorni feroci a Masaya: la prima città a dichiararsi «territorio libero» è stata punita con particolare scrupolo. Nel resto del Paese non è andata meglio. A malapena la “zona Chayo” è scampata alla violenza. Così, dal diminutivo della vice e moglie di Ortega, Rosario Murillo, la gente chiama il blindatissimo quartiere governativo di Managua, capitale senza centro – distrutto dal terremoto del 1972 –, dove le vie non hanno nome. Solo là sono sopravvissuti gli “alberi della vita”, gigantesche sagome di metallo, emblema della coppia presidenziale e, per questo, distrutte dai dimostranti. «Le proteste sono state uno spartiacque. Il governo ha fatto ricorso a una forza sproporzionata per schiacciarle. Già prima c’erano stati casi di violazioni dei diritti umani ma mai di tale portata», afferma Monica Baltodano, altra figura del sandinismo storico passata all'opposizione. Ora, con l’associazione Popolna, si dedica alla difesa dei detenuti politici: ancora 659, dopo la concessione della libertà condizionale, nel primo giorno del nuovo dialogo, a cento reclusi e poi ad altri otto.

A questi si sommano – secondo il bilancio più cauto – 326 morti, 80mila persone in esilio e altre decine di migliaia in clandestinità. Tra loro, Dora Téllez, la celebre Comandante 2, trasformata in icona del sandinismo dopo l’assalto al Palazzo nazionale di Somoza del 22 agosto 1978, insieme a Edén Pastora. «Avevo 23 anni. Mai avrei pensato di dover tornare a nascondermi, 40 anni dopo. Vivo segregata da otto mesi per le minacce. Ma mi ritengo fortunata: ho tanti amici in prigione, tenuti in condizioni disumane – dice l’ex guerrigliera –. Il comportamento criminale del governo, però, non è riuscito a stroncare la rivolta. Altrimenti non ci sarebbero agenti in tenuta anti-sommossa a ogni angolo di strada. L’unico sconfitto è Ortega: sprofonda, ogni giorno di più, in un pantano. La sua caduta è lenta ma inesorabile». In effetti, il costo economico e politico della repressione s’è rivelato salato. In un anno, il Nicaragua ha perso 453mila impieghi e 1,5 miliardi di depositi bancari, mentre 6,3 milioni di persone sono finite in miseria. Cifre da capogiro per il Paese più povero d’America dopo Haiti. «Il terrore indiscriminato ha ucciso il turismo: gli hotel lavorano al 20 per cento della capienza – spiega José Luis Rocha, sociologo e ricercatore della rivista Envío –. Gli imprenditori, a lungo alleati, hanno abbandonato Ortega. L’isolamento internazionale, inoltre, pesa come un macigno sulle spalle del governo, specie ora che il potere di Nicolás Maduro traballa in Venezuela, mentre gli Usa si sono fatti sempre più aggressivi». Il presidente Donald Trump – che ha già imposto sanzioni al presidente e al suo entourage – ha minacciato misure drastiche. Dall’Onu al Parlamento Europeo, gli appelli della comunità internazionale per la fine della violenza e il ritorno al dialogo si sono fatti martellanti. E alla fine Ortega ha “ceduto”. O almeno così pare. Sempre che non si tratti di un nuovo espediente per “guadagnare tempo”. «Spetta a noi fare in modo che non sia così», dice Ernesto Medina, ex rettore dell’Università americana (Unam) e delegato dell’Alleanza per il negoziato. Quest’ultima ha come priorità la liberazione dei prigionieri politici ancora dietro le sbarre e la ridemocratizzazione del Paese attraverso la riforma elettorale. Più o meno gli stessi obiettivi della prima volta. «Abbiamo imparato dai nostri errori: siamo più preparati – conclude Medina –. Non possiamo fallire. L’alternativa è il baratro».

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