sabato 24 giugno 2017
Il racconto del religioso caldeo che assiste le decine di immigrati che Trump vuole rimpatriare. «Hanno già pagato per le loro colpe, là rischiano la vita o di essere torturati»
La protesta dei parenti dei cristiani iracheni davanti al centro di detenzione in Ohio

La protesta dei parenti dei cristiani iracheni davanti al centro di detenzione in Ohio

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La deportazione di questi nostri fratelli equivale a una condanna a morte, come il dipartimento di Stato ha riconosciuto lo scorso anno. (…) Il loro arresto ha seminato confusione e rabbia nella nostra comunità». La lettera che Francis Kalabat, eparca di San Tommaso Apostolo a Detroit, ha inviato a Washington in risposta alla minacciata espulsione di 114 caldei iracheni della sua diocesi tradisce lo stupore della Chiesa del Michigan di fronte alle incursioni degli agenti dell'immigrazione in decine di case della regione. «E' tutto molto strano e doloroso – spiega Kalabat – queste persone non si stavano nascondendo, ma sono state buttate giù dal letto all'alba di domenica dall'irruzione di uomini armati. Il mandato di arresto li definisce criminali, ma chi fra loro aveva commesso un reato l'ha già pagato e si era del tutto reintegrato in società».

Il rimpatrio forzato è stato sospeso da un tribunale di Detroit per due settimane, ma le famiglie degli arrestati non sono tranquille e continuano a manifestare di fronte agli uffici federali della città. Nel frattempo, altri 85 cristiani iracheni sono stati arrestati fuori dal Michigan e non sono protetti dalla sentenza emessa dal giudice Mark Goldsmith.


Quasi tutti gli iracheni presi di mira dall'agenzia per l'immigrazione dell'Amministrazione Usa (Ice) sono arrivati negli Stati Uniti a partire dal 2003 come rifugiati, in fuga dalla guerra civile in Iraq e dalla persecuzione commessa nei confronti dei cristiani nel Paese mediorientale. Nel marzo del 2016 il dipartimento di Stato americano ha dichiarato che il Daesh aveva commesso e stava commettendo «un genocidio» nei confronti delle minoranze cristiane in Iraq e in Siria. Alcuni degli arrestati, stando alle associazioni per i diritti umani che li stanno difendendo, non hanno rinnovato i loro permessi di soggiorno, altri hanno commesso reati o infrazioni mentre si trovavano negli States. Ma tutti i carichi civili e penali sono già stati scontati con pene carcerarie o sanzioni pecuniarie negli ultimi anni.
«Comprendiamo che qualcuno possa avere avuto dei problemi in passato – continua il vescovo Kalabat – ma ora non hanno debiti con la società, hanno messo su famiglia, sono diventate persone migliori in questo grande Paese di pace e di opportunità».
L'Ice ha fatto sapere che i raid sono frutto di un recente accordo fra l'Amministrazione Trump e Baghdad: «In seguito a recenti negoziati fra Washington e Baghdad – dice la nota dell'agenzia – l'Iraq ha accettato di ricevere un certo numero di suoi cittadini oggetto di un ordine di rimozione». Un giudice federale ha firmato gli ordini di espulsione forzata qualche settimana fa. Attualmente tutti gli arrestati sono detenuti nel penitenziario di Youngstown, in Ohio, in attesa che i ricorsi avanzati a loro nome vengano ascoltati. «Come comunità, siamo in ansia e stiamo soffrendo», conclude padre Kalabat.

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