sabato 17 giugno 2017
Una poliziotta è stata assassinata da tre "terroristi palestinesi" che sono stati poi uccisi in una sparatoria. Il sedicente stato islamico per la prima volta rivendica. Da Gaza la smentita
Il corpo di uno dei terroristi dopo la sparatoria vicino alla porta di Damasco a Gerusalemme (Ansa)

Il corpo di uno dei terroristi dopo la sparatoria vicino alla porta di Damasco a Gerusalemme (Ansa)

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Sull’attentato di ieri sera a Gerusalemme è un vera e propria guerra di rivendicazione tra il Daesh, da una parte, e Hamas e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), dall’altra. L’agenzia Aamaq, vicina all’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi, ha attribuito “la benedetta operazione” a tre “soldati del Califfato” che ha identificato con i nomi di battaglia di Abu al-Baraa, Abu Hassan e Abu Rabah, aggiungendo per tutti il patronimico “al-Maqdisi”, il gerosolimitano. Per Fplp e Hamas, si tratta invece di propri militanti, tutti tra i 18 e 19 anni: Baraa Ibrahim Ata e Osama Mustafa Ata, entrambi ex detenuti Fplp nelle carceri israeliane, e Adel Ankoush, militante islamico. Una poliziotta del corpo di sorveglianza delle frontiere è stata uccisa a colpi di coltello dai terroristi vicino alla porta di Damasco a Gerusalemme: i tre aggressori, armati anche di pistole, a loro volta sono caduti sotto i colpi dei compagni della donna uccisa.

Se dovesse essere confermata la rivendicazione del Daesh, si tratterebbe del primo attentato compiuto dai jihadisti in Israele. Il Califfato aveva pubblicato nell’ottobre 2015 un video in lingua ebraica destinato alla popolazione israeliana. «La guerra vera e propria deve ancora iniziare», esordiva il jihadista armato di tutto pugno e con il volto coperto da un passamontagna. Il video – dall’agghiacciante titolo “Abolire i confini e trucidare gli ebrei” – era il dodicesimo video diffuso in tre giorni sulla Palestina da altrettante “wilaya” del Califfato. Un vero e proprio battage mediatico per esortare i palestinesi a incentivare “l’Intidafa dei coltelli”, ma soprattutto a rinnegare le proprie leadership e fazioni, “comprese quelle che si trincerano dietro slogan islamici, mentre stringono la mano al nemico”.

Un chiaro richiamo a Hamas, le cui bandiere verdi apparivano in diversi segmenti dei filmati diffusi. Gettare discredito non solo su Abu Mazen, ma anche sul principale movimento islamico palestinese diventava così una strategia di punta del Daesh per cercare di recuperare a proprio vantaggio gli strati palestinesi delusi dal fallimento del processo di pace.

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