martedì 29 novembre 2011
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​È il riproporsi drammatico di un film cui non si vorrebbe assistere mai più, ma che purtroppo non porta ancora ai titoli di coda che accompagnano la parola «fine». Un evento che è già accaduto in più di un passato: perché i sentieri dell’Africa, quelli che portano là dove c’è più bisogno sono, e ancora restano, rossi, bagnati dal sangue di tante vite innocenti che hanno saputo mettere in gioco la loro esistenza per riscattare quella di chi non ha avuto nulla più che la sfortuna di venire al mondo in uno dei luoghi più poveri e più tribolati dell’Africa. Quel piccolo cuore nero martoriato da guerre etniche, malattie, privazioni e povertà che alimentano solo disperazione, violenza e aggressività, e che si trova proprio nel centro del Continente nero.Un cuore malato dove solo i religiosi, i volontari e i coraggiosi operatori delle Organizzazioni umanitarie non governative, hanno il coraggio di vivere anche andando nei luoghi più sperduti, lontani da una garanzia di protezione, nel folto di una grande foresta, dove a muoversi senza scrupoli e senza pietà sono soprattutto gruppi di banditi, tagliagola senza il rimorso della pietà, predoni d’ogni risma, oppure i gruppi di ribelli armati di ogni etnia e colore politico. Molte vite sono state spezzate da una morte assegnata con la violenza, senza neppure la consolazione di un perché. Molte altre senza neppure avere avuto il tempo e la pietà di mettersi in ginocchio e pregare di fronte alla propria esecuzione. Come è accaduto questa domenica sera appena trascorsa, in una remota località del Burundi, Kiremba. Dove due giovani uomini armati hanno assalito le suore di un convento delle Ancelle della carità, con l’intento di rubare i loro soldi, ma invece l’esito è stato un orrore che ha causato l’uccisione di una religiosa di origine croata, suor Lucrecija Mamic, l’esecuzione a sangue freddo dell’operatore volontario Francesco Bazzani, e il ferimento, nel tentativo di non venire anche lei ammazzata, di una seconda religiosa, suor Carla Brianza.Dunque ancora delle vite offerte al martirio, strappate a quel mondo della carità che si chiama speranza di riscatto dei poveri, e che sono morte nella consapevolezza cristiana del dono: «Questo è il mio sangue versato per voi». È un sangue che in particolare ammanta i sentieri di quell’Africa dei Grandi Laghi che da parecchi decenni non riesce a trovare il respiro silenzioso della pace. Nemmeno quando si pensa che il fuoco dell’odio etnico, tutti ricordiamo l’orribile genocidio ruandese, il massacro di ottocentomila persone in 100 giorni, sembra essersi estinto, alla luce del giorno, perché non se ne parla, mentre continua ad ardere come brace sotto la cenere, pronto a rinvigorire l’odio che brandirà il machete. In quest’Africa dove poggiano nazioni come il piccolo Burundi, poco più grande delle dimensioni del nostro Piemonte, la vita, negli avamposti del dolore e della carità missionaria a volte vale meno di zero. Perché nascosti nel verde lussureggiante di una immensa foresta equatoriale, o sul sentiero di una coltivazione di banani o nel folto di una distesa abbagliante di piante del té, si può nascondere la morte. Si chiamino banditi, oppure ex militari allo sbando che con gli anni si sono trasformati in criminali sanguinari senza uno sguardo di pietà, o che siano solo dei poveri ladri costretti dalla disperazione e dalla fame a vestire gli stracci degli assassini, questo cuore dell’Africa nera resta un angolo di pianeta dove la vita ha il vero significato del sacrificio e della profezia.
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