mercoledì 14 ottobre 2020
Dare un po' di dosi a ogni Paese, privilegiare chi ha più anziani o chi è più efficiente?
Criterio etico per la distribuzione cercasi

Reuters

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Come si dovrebbe distribuire il vaccino anti-Covid 19 se la quantità disponibile inizialmente sarà scarsa rispetto alla domanda e alla necessità (che potrebbero non coincidere)? Il verbo “dovere” implica un criterio, e un criterio etico, data la natura del bene che va distribuito. I dilemmi, cioè situazioni in cui non c’è una soluzione ottimale e nemmeno un orientamento condiviso su come agire, si propongono soprattutto a livello internazionale.

E non sono legati soltanto al prezzo. Come ha ribadito più volte papa Francesco, il vaccino dovrebbe essere disponibile gratuitamente per tutti. Il punto è che in una prima fase non ci saranno dosi disponibili per ciascuno, e ciò è dovuto non a cattiva volontà ma ai tempi tecnici di produzione. Almeno tre sono gli attori coinvolti nello scenario globale: l’iniziativa Covax, che promuove l’accesso al futuro vaccino, capeggiata da Oms, Gavi Alliance e Cepi, due organizzazione non profit promosse tra gli altri dalla Fondazione Gates; le aziende farmaceutiche; i governi nazionali. Questi soggetti hanno strategie diverse e anche potenzialmente conflittuali in termini di obiettivi, profitti e interessi.

Se Covax può coprire le spese dei produttori per favorire la distribuzione ai Paesi con meno risorse, rimane il “nazionalismo” degli Stati, che possono non volere cedere i farmaci che sono sviluppati all’interno del proprio territorio. Una certa preferenza dei governi per i propri cittadini è ritenuta legittima da molti teorie etiche e da molti studiosi, mentre per altri non dovrebbero esserci frontiere nella responsabilità verso i bisogni sanitari fondamentali, specie in un periodo di emergenza. In questo quadro, sono state avanzate due principali proposte di distribuzione del vaccino anti-Covid.

La prima è quella dell’Oms, sottoscritta anche da Covax, che prevede in avvio di dare a ciascun Paese dosi in proporzione alla popolazione fino al raggiungimento di una copertura del 3% e di proseguire in questo modo finché si raggiunga il 20% dei cittadini di ogni Stato. In questo modo, si vuole attribuire la stessa considerazione morale a tutti, tuttavia trattare Paesi diversi in modo uguale può non essere equo né efficiente.

La seconda proposta basa invece il criterio di distribuzione sul numero di medici e infermieri in prima linea, sulla percentuale di popolazione over 65 e sul numero di persone con gravi patologie. L’idea è proteggere i più fragili e di evitare il tracollo del sistema sanitario, non vi è però garanzia che si salvino più vite né si impedisca il tracollo economico (letale quasi quanto la pandemia). Alla luce delle critiche ai modelli citati, 19 epidemiologi, filosofi e giuristi hanno pubblicato qualche settimana fa sulla rivista “Science” un’alternativa più complessa, definita «Fair Priority Model».

La «priorità equa» verrebbe perseguita individuando tre fasi- obiettivo (1. ridurre le morti premature; 2. ridurre le conseguenze economiche e sociali gravi; 3. ritornare alla situazione ante-virus). La metrica impiegata più importante è quella degli anni attesi di vita persi, ovvero, brutalmente, la tutela di un giovane viene anteposta a quella di un anziano, perché il primo ha più tempo da vivere.

La priorità nei vaccini andrebbe dunque ai Paesi capaci di ridurre più “anni persi” per dose di vaccino. E ciò sarebbe in linea con i valori che prescrivono di evitare gravi danni e di aiutare prima i più deboli dando uguale valore a una vita salvata alla stessa età senza distinzione di Stati. E così via per le altre fasi-obiettivo. Obiezioni rilevanti si possono muovere anche contro questo modello, non ultima la difficoltà di calcolare sul campo le metriche. La discussione però è utilissima e, in attesa del vaccino, stimola la ricerca di una ricetta che sia davvero etica e praticabile.

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