lunedì 5 agosto 2013
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​Le luci della cidade maravilhosa si sono spente alle nostre spalle e la grande arteria dell’Avenida do Brasil è ora una ferita che taglia rivoli di baracche e lamiere. Arriviamo con la pioggia a Nova Holanda, una delle favelas più malfamate della Baixada, a nord di Rio de Janeiro. È qui che abbiamo appuntamento con padre Renato Chiera, un missionario italiano che da molti anni lavora con i ragazzi di strada nella zona di Nova Iguacu, non lontano da qui. Con lui entriamo nella Cracolandia. Così chiamano i campi di concentramento del crack, una droga che deriva dagli scarti della cocaina mescolata ad altre sostanze chimiche e che in Brasile conta ormai milioni di vittime. «Ce ne sono dodici a Rio de Janeiro – dice padre Renato che da un anno e mezzo viene ogni settimana nella Cracolandia di Nuova Holanda –. Qui sono circa in trecento, la polizia non entra, i cracudos sono protetti dagli stessi trafficanti del quartiere». Elisa è una di loro e ci fa strada insieme al missionario. Appeso al collo ha un ciuccio per neonati che s’infila in bocca dopo aver divorato una porzione di patatine fritte offerte dal padre. Elisa ha 25 anni, due figli. «Loro non sono qui con me», mi dice senza aggiungere altro. M’indicano una scritta a lato della strada sterrata: «Benvenido ao inferno». Sotto una nebbia grigia, sacchi d’immondizia accostati ai muri s’improvvisano a rifugi. Addossati come cavallette tra i rifiuti sagome di ragazzi, uomini, donne, ragazzini. In mano il bicchiere di plastica da cui respirano il fumo nero del crack.Uno straccio rosso appeso alla capanna di buste di plastica è la tenda da dove entrano e escono in fretta come topi. All’interno, dal fumo acre del crack sbucano facce e destini. Sono sei o sette in questa tana. Giù in fondo una ragazzina raggomitolata in una maglia bianca si appoggia alla spalla di una donna anziana di colore. La donna mi dice di chiamarsi Vera Luz. Ha sessant’anni. «Fuori è freddo... vieni», e si fa più in là per farmi posto accanto a lei. Vera Luz stringe tra le mani una catenina con la Madonna nera di Aparecida. «Avevo una famiglia nel nord del Brasile – spiega – ma io non posso dire quello che ho fatto». Poi sottovoce comincia a raccontarmi la sua storia. Suo marito la picchiava e lei un giorno lo ha ucciso. Così è scappata lontano, dove nessuno poteva giudicarla. Ha cominciato allora a usare crack... Piange mentre mi dice dei suoi figli internati nel carcere di Bangu... «Quando fumo non soffro tanto, no, non tanto», dice, e guarda gli altri nella tenda come fossero i suoi figli, i suoi nipoti: «Questa è la mia casa, adesso». La pedra maldita non guarda in faccia l’età di nessuno, entra come una serpe strisciando dal fondo di vite lacerate. La più piccola in questa comunidade, come la chiamano loro, è una ragazzina di 11 anni, la più anziana è Vera Luz. Fuori, padre Renato si china a coprire un ragazzo. È sotto la pioggia, inerme, lo sguardo nel vuoto, magro come uno scheletro, perché la pietra non fa più sentire la fame e la sete. Si avvicina a lui un altro cracudo, alto, dagli occhi a mandorla, e gli mostra le piaghe che ha sulle gambe. Parla ad alta voce, dice frasi sconnesse. Carlos, un ragazzo di colore di 26 anni con un cappello dai colori vivaci, si è messo al mio lato come un’ombra, mi vuole accompagnare lui tra la sua gente e mi fa largo passando tra i corpi accatastati ai bordi del marciapiede. Mi presenta Juno, un ragazzo nero ancora forte nel fisico. Appena vede padre Renato gli va incontro e lo abbraccia. Conosce il padre e vorrebbe andare nelle sue case di accoglienza. «Oggi non ho fumato» gli dice. Juno ha 17 anni, non ha genitori, non è mai andato a scuola. Porta nello sguardo il carico degli anni brevi consumati per strada. Ha sempre vissuto di espedienti. Si era arruolato nel traffico di droga perché dai narcos si sentiva protetto. Un giorno la polizia l’ha preso, è rimasto sei mesi in mezzo a violenze e umiliazioni, ora è qui. «Una dose di crack costa pochi reais», spiccioli della moneta locale, un euro o appena di più, spiega padre Renato. «Per procurarsela la maggior parte ruba o si prostituisce, specialmente le ragazzine» aggiunge. Ma non tutti in questo cimitero dei vivi vengono dalle storie di miseria del Brasile profondo. La pedra unisce nella disperazione analfabeti e laureati. Mauricio ha trent’anni, tira fuori dalla tasca la sua carta di credito. «Adesso non serve più», dice, e la mostra come un passaporto: quello della sua vita passata, quello di una famiglia benestante alle spalle. Anche lui è finito in questo fango, senza sapere perché. «La ragione di queste derive, di questo degrado sta sì nella povertà sociale – dice padre Renato – ma soprattutto nella penosa condizione di chi mai è stato amato. È una disperazione, che prende il cuore e annichilisce».Sanno che rimanere è morire, sanno che non c’è ritorno. Chiedo a Carlos di lasciarmi scritto il suo nome, un indirizzo in un pezzo di carta. Mi scrive: «Carlos Roberto Pereira, Cracolandia». Lo guardo. «Non vuoi andar via da qui?» gli chiedo sottovoce. Mi fissa in silenzio. L’urlo nero dei suoi occhi... Chi, chi riesce a sentirlo?
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