mercoledì 16 ottobre 2019
Lo scontro sta coinvolgendo le aree dove sono detenuti centinaia di miliziani del Daesh che sono riusciti a fuggire o potrebbero farlo, anche con l'aiuto di altri terroristi
La prigione curda di miliziani del Daesh (Isis) a Ayn Issa, in Siria, tra Raqqa e il confine turco. Foto da una prigione curda di miliziani Isis. I terroristi reclusi sono scappati dopo raid aerei turchi (Ansa)

La prigione curda di miliziani del Daesh (Isis) a Ayn Issa, in Siria, tra Raqqa e il confine turco. Foto da una prigione curda di miliziani Isis. I terroristi reclusi sono scappati dopo raid aerei turchi (Ansa)

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Durante tutta la fase preparatoria della sua offensiva, Ankara ha cercato di rassicurare gli occidentali sulla sua intenzione di prendere in carico tutti i prigionieri del Daesh (o Isis) detenuti nelle carceri curde. Invece, sono molti gli elementi che inducono a ritenere che uno dei rischi maggiori dell’operazione turca contro i curdi è quello di resuscitare il Daesh, o perlomeno creare le condizioni per una riorganizzazione.

Anzitutto, lo spostamento di molti miliziani curdi da sud verso il confine nord ha sguarnito tutta la fascia che va da Deir ez-Zor ad al-Bukamal in cui è più alta la minaccia del Daesh dove, a pochi chilometri oltre l’Eufrate, persistono ancora alcune sacche dei jihadisti.

In secondo luogo, per una questione di ordinaria amministrazione. Finora, i 16 centri di detenzione del Daesh sono stati gestiti da due “autorità”: la Federazione curda del nord della Siria (6 centri) e il governo di Baghdad (9 centri), senza parlare dei numerosi campi civili in cui sono stati raccolti i familiari dei jihadisti. Solo un centro, invece, si trova nella città di al-Bab, nel territorio entrato sotto controllo dei ribelli cooptati da Ankara dopo l’operazione Scudo dell’Eufrate del febbraio 2017. Guarda caso, quello in cui si è verificata, nel settembre 2018, la fuga di alcuni detenuti, spariti poi nel nulla.

Ora, dei sei centri che si trovano nella zona curda, solo tre si trovano dentro il raggio d’azione dichiarato (30-35 chilometri dal confine) dell’esercito turco. Si tratta dei centri di al-Malikiyah, nella punta orientale della Siria in cui sono detenuti 400 terroristi, di Qamishli e di Kobane, mentre rimarrebbero sotto gestione curda i centri di Ain Issa, Hassaké e Dashisha. Non solo sarebbe illusorio aspettarsi un passaggio delle consegne pacifico tra due forze che si stanno facendo la guerra, ma l’entrata in scena di un terzo “gestore” rischia di confondere le carte.

Secondo una ricerca condotta negli anni scorsi, la Turchia è stata il punto di passaggio del 93% degli aspiranti jihadisti affluiti da mezzo mondo verso la Siria. Con o senza la complicità della polizia turca, molti hanno raggiunto il Califfato attraverso Gaziantep, Kilis e altri valichi di frontiera. Secondo il capo di stato maggiore americano, ancora nell’ottobre 2018, quando il territorio del Daesh era ormai ridottissimo, un centinaio di jihadisti attraversava ogni mese questo confine.

Nessuna meraviglia se un analista del Center for Global Policy affermava pochi giorni fa che «il Daesh non avrà problemi a comprarsi la lealtà di queste forze, pagando tangenti per poter scappare». E anche qui il gioco dei numeri impera: Erdogan dice al “Wall Street Journal” che «nessun detenuto lascerà la regione», fonti del Cremlino parlano invece di «12mila prigionieri fuggiti dalle carceri del Nord».

Rimane comunque la minaccia diretta. Nel suo ultimo audio del 16 settembre, Abu Bakr al-Baghdadi ha esortato i suoi a raddoppiare gli sforzi per liberare i detenuti «dai campi della diaspora e le carceri dell’umiliazione». Da alcuni mesi, i servizi notano un potenziamento della rete di supporto terroristica nella provincia di Hassaké, e mettono in guardia circa la possibilità di usare queste retrovie in assalti alle carceri nel nord della Siria.




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