venerdì 17 agosto 2012
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È un «professionista della comunicazione che lotta per la libertà d’espressione, della stampa e dei diritti umani». Questa è la prima delle 11 motivazioni elencate dal ministro degli Esteri Ricardo Patiño per giustificare la decisione dell’Ecuador di concedere l’asilo a Julian Assange. Le altre riguardano la «tradizione di Quito di protezione nei confronti dei perseguitati», quando sussiste «pericolo per la loro sicurezza e integrità». Belle parole. Insufficienti, però, a spiegare perché il presidente Rafael Correa abbia deciso di raccogliere “una patata bollente” che, finora, perfino Londra ha cercato di togliersi di torno. Accollandosi il “caso Wikileaks”, l’Ecuador rischia di mettere a repentaglio le relazioni con la Gran Bretagna, la Svezia e soprattutto il suo principale partner commerciale, gli Stati Uniti. Oltretutto, Correa era stato, in principio, “ostile” nei confronti del fondatore di Wikileaks. Nel novembre 2010, quando esplose il caso, il leader definì «un errore» la scelta del sito di pubblicare migliaia di file segreti, «violando le leggi Usa». Un anno e mezzo dopo, però, l’uomo forte di Quito ha, improvvisamente cambiato idea: nell’aprile 2011 è comparso in un’intervista per Russia Today insieme ad Assange, che ha salutato con la frase: «Benvenuto nel club dei perseguitati». Un idillio culminato nella decisione, ieri, di concedergli l’asilo diplomatico. Il fatto è, almeno a prima vista, paradossale. Una delle tante “acrobazie politiche” di Correa, l’ex manager rampante ultraliberista convertito al socialismo. L’autoproclamato alfiere della trasparenza a tutti i costi ha trovato aiuto proprio dal leader che - fin dalla sua elezione, nel 2007 - ha ingaggiato una guerra a più riprese coi media indipendenti. Accusati dal governo di essere strumenti al servizio “dell’oligarchia capitalista”. Correa, però, non si limita alle critiche, spesso feroci. L’esecutivo ha varato una serie di leggi per ridurre la libertà di stampa. E nei confronti dei giornali più “fastidiosi” ha avviato battaglie legali che si sono concluse con multe milionarie, inflitte dai giudici a editori e giornalisti. Da maggio, 11 radio critiche hanno dovuto chiudere i battenti per l’improvviso ritiro della concessione. Il giro di vite ha scatenato una pioggia di critiche contro il “presidente liberticida”. Oggetto di editoriali al vetriolo su The New York Times e il Washington Post. In questo contesto, il presidente ha deciso di giocare la “carta Assange”.  Accorrere in soccorso del fondatore di Wikileaks dà a Correa l’occasione di “ripulire” la sua immagine globale di censore della stampa libera. E di tornare sulla ribalta internazionale come protettore – almeno formalmente – dei diritti umani e della trasparenza informativa. In un momento cruciale per la conquista della leadership regionale in America Latina. La stella di Chavez è in declino a causa della malattia. Correa da sempre tenta di prendere il posto dell’ingombrante “amico” come punto di riferimento del blocco intransigente. Il caso Assange può fargli acquistare “punti” nei confronti degli altri Paesi “bolivariani”, Bolivia e Nicaragua. Non a caso, Correa ha prontamente chiamato in soccorso gli alleati dell’Unasur e Alba. E nella tarda serata di ieri, sulla vicenda si è riunita anche l’Organizzazione degli Stati americani (Osa). In ambito interno, la difesa di Assange, permette, inoltre, al leader di galvanizzare l’ala più intransigente del suo elettorato, a eno di un anno dalle elezioni presidenziali del 2013. Oltretutto – sottolinea il giurista Adrian Bolilla – il rischio di “rappresaglie internazionali” è minimo, a parte qualche frizione con la Gran Bretagna. Washington non ha mai riconosciuti veri i file di Wikileaks, “punire” Quito ora sarebbe uno scivolone diplomatico. Tutt’al più è probabile una “rottura” con la Svezia. Un partner economico non fondamentale. Alla fine, “l’affaire Assad” può rivelarsi un buon affare per Correa. A meno che la scelta non gli si ritorca contro.
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