venerdì 12 aprile 2013
​Lungo il 38° parallelo la vita resta sospesa nella paura che la crisi precipiti. Il «bluff» la vera arma del Nord: sposta e risposta rampe e missili in modo da confondere le intelligence dei nemici
LA DIRETTA TWITTER Diario coreano di Giorgio Ferrari
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«It’s a normal fact», è un fatto normale, si affretta a spiegare il gentilissimo custode del museo dei cimeli di guerra sorridendo a quelle gigantesche libellule che fuoriescono pigre dalle nubi come da una crisalide e si dirigono rumorosamente verso Sud. Veder svolazzare sopra le nostre teste due Chinook delle forze armate statunitensi non deve farci pensare allo stato di guerra dichiarato da Pyongyang, alle minacce del dittatore Kim Jong-un, all’imminenza del lancio di un nuovo missile in occasione dell’anniversario dell’intronazione del giovane satrapo dalla faccia di cherubino. Non a Munsan, per lo meno perché qui, come a Panmunjom, una pace vera non c’è mai stata e il contingente americano, per quanto a ranghi ridotti, da questa terra di discordia non se ne è mai andato. «Ci siamo sempre sentiti in guerra, qui nella Dmz – dice –, un po’ per le continue manovre militari, un po’ perché il vicino del Nord non ha mai smesso di minacciarci».Nella sua ispida semplicità l’acronimo Dmz (Zona coreana demilitarizzata) non basta a rendere giustizia di questa follia che dura da sessant’anni. Da quando cioè nel luglio del 1953 le due Coree in guerra da tre anni arretrarono consensualmente di 2 chilometri ciascuna dando vita a una striscia lunga 248 chilometri e larga 4 che corre come un serpente sopra e sotto il 38esimo parallelo. Un armistizio, non un trattato di pace, firmato a Panmunjom, piccolo villaggio sul confine tra i due Paesi in lotta altrimenti destinato ad essere ignorato dalla Storia. La linea di separazione divide perfino il tavolo dove il generale americano William Harrison Jr e il suo omologo nordcoreano Nam siglarono la fine della guerra. Una guerra dai molti nomi, a seconda di come la si guarda: Hanguk jeonjaeng, “guerra coreana”, così senza fantasia la chiamano a Seul, mentre Pyongyang su imitazione russa la definisce “Guerra patriottica di liberazione” e i cinesi “Guerra di resistenza all’America”.Ora a Pyongyang se ne sta combattendo un’altra, la “Guerra per non perdere la faccia”. Kim Jong-un ha un’unica vera arma, il bluff, l’“ammuina” di borbonica memoria, quello spostare e rispostare rampe e missili in modo da confondere le intelligence americana, sudcoreana, giapponese, costrette a ricorrere alla sorveglianza occhiuta dei satelliti e ai loro responsi sibillini, senza mai venire a capo del rebus principale: quali armi, quali testate, con quali vettori il satrapo nordcoreano lancerà la sua sfida, se poi davvero la lancerà? «La Corea del Nord vuole ottenere assistenza finanziaria dall’estero senza cedere sull’orgoglio o sulla stima di sé», dicono i vescovi coreani, e hanno ragione. Ieri Pyongyang ha festeggiato con un diluvio di retorica patriottica il suo leader: «La Storia – scrive con involontaria ironia il quotidiano del partito Rodong – non ha mai visto nessun dirigente socialista come Kim». Nel frattempo si muove la diplomazia occidentale. Ieri è giunto a Seul il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen per incontrare il ministro degli Esteri, Yun Byung-se e la presidente, Park Geun-hye. Arriverà anche il Segretario di Stato americano John Kerry. Voleranno parole, ricostruzioni, rassicurazioni e anche l’ipotesi di nuove sanzioni per Pyongyang, come invoca il G8 di Londra. Ma i timori maggiori li ha il Giappone. Quelle batterie schierate lungo la costa coreana agitano il sonno di molti, nonostante è probabile che facciano parte del bluff di Kim Jong-un. Gli stessi cinesi sono ancor meno ottimisti: secondo Zhang Lianghui, uno dei maggiori esperti di Corea del Nord della Cina, «c’è il 70 per cento di probabilità che la crisi in corso nella regione sfoci in guerra aperta perché il leader nordcoreano vuole usare questa occasione per arrivare alla riunificazione della penisola coreana».A Munsan, ma a ben vedere anche a Seul, la gente accoglie l’ennesima minaccia dei coreani del Nord con un fatalismo che rasenta l’apatia. «L’importante è riaprire al più presto il distretto di Kaesong, altrimenti qui falliamo tutti. La guerra fa meno paura della povertà». Sessant’anni fa Munsan venne conquistata dai cinesi alleati della Corea del Nord. Oggi è la capitale della lavorazione della pregiatissima anguilla, boccone prelibato per le tavole dei coreani del Sud, che quelli del Nord possono solo sognarsi. Anche qui ci sono rifugi antiatomici per la popolazione, molti dei quali di fabbricazione locale. «Ce ne hanno ordinato qualcuno anche in California – spiegano orgogliosi –. Non si sa mai…». La lunga linea grigia che separa le due Coree sbiadisce nella nebbiolina di una primavera che rilutta a sbocciare, regalando un vento gelido che piega le fronde degli alberi e muove le nuvole. Anche oggi è stata una giornata di attesa, in questa interminabile partita di Go, il popolarissimo gioco di strategia molto amato a Seul come a Pyongyang. Un match sempre incerto e dagli esiti imperscrutabili. Non per nulla un proverbio coreano recita (parafrasando senza saperlo Eraclito): «Non si è mai giocata due volte la stessa partita…».
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