martedì 18 settembre 2012
​L’attivista italiano è stato ucciso nella Striscia nel 2011 da un commando salafita. I parenti hanno scritto al tribunale per chiedere clemenza: «Non volevamo sommare morte a morte».
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Per Vik, che ogni volta chiudeva i suoi articoli, diffusi via blog, con la frase: «Restiamo umani», a dispetto di tutto. Tanto che «restiamo umani» era diventato anche il titolo del libro dedicato dal volontario alla sua esperienza a Gaza. Chissà quante volte queste parole saranno tornate in mente alla mamma di Vittorio Arrigoni, Egidia, e agli altri familiari mentre scrivevano al tribunale in due lettere ufficiali di avere pietà degli assassini del figlio 36enne. E di risparmiare loro la pena di morte. Una presa di posizione importante: in base al codice penale di Hamas – la fazione palestinese che controlla la Striscia –, i giudici devono tener conto del punto di vista dei parenti nel comminare la pena. E così, infatti, hanno fatto. Mahmud al-Salfiti e Tamer al-Husana, i giovani killer di Arrigoni – rispettivamente di 23 e 25 anni – sono stati condannati all’ergastolo invece che alla pena capitale. Dietro le sbarre per dieci anni dovrà stare anche il complice Faruk Jerim, 25 anni. Quest’ultimo, vicino di casa dell’italiano, è accusato di aver dato informazioni chiave agli assassini. Sentenza a un anno, infine, ma in contumacia – dato che latitante – per il 25enne Amer Abu Ghola, proprietario della casa dove è stato ucciso Arrigoni. A distanza di un anno, cinque mesi e due giorni, la giustizia palestinese ha messo fine al caso di omicidio che choccò l’opinione pubblica in Italia e nella Striscia, dove l’attivista era noto. Vittorio Arrigoni – originario di Bulciago, in provincia di Lecco – è stato il primo straniero assassinato a Gaza, dove era arrivato nel 2008 e si era fermato per raccontare l’offensiva “Piombo fuso” condotta dallo Stato ebraico. Poi, “Vik” – come lo chiamavano gli amici – decise di restare per conto del Movimento di solidarietà internazionale. Fervente combattente per i diritti dei palestinesi – a volte in modo acritico: spesso nel blog utilizzava toni violenti contro gli israeliani –, aveva scelto di vivere in mezzo alla gente, per documentarne i piccoli-grandi drammi quotidiani. E così ha fatto fino al 14 aprile 2011. Quella sera, Vittorio stava rientrando a casa, quando un commando lo rapì. Qualche ora più tardi, le immagini del giovane, con lo sguardo spento e immagini di sangue sul viso, erano state diffuse su Internet. I sequestratori – che dicevano di appartenere a un commando ultrafondamentalista di salafiti – chiedevano in cambio del rilascio, la liberazione di uno dei loro leader, lo sceicco Hisham al-Saedni, arrestato da Hamas. Per quest’ultima fazione, gli jihadisti salafiti rappresentavano spina nel fianco e una pericolosa sfida alla sua egemonia su Gaza. L’ultimatum fu fissato per il giorno successivo. Nella notte, però – secondo quanto poi confermarono gli esami medici – Arrigoni fu strangolato. Il suo corpo fu ritrovato l’indomani in un blitz delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato di Hamas. Le indagini si chiusero quattro giorni dopo con l’arresto di tre dei quattro miliziani salafiti coinvolti e la morte, in uno scontro a fuoco, dei due presunti ideatori del piano. «Si è chiuso un capitolo tragico, nella verità e nella giustizia», ha commentato il legale della famiglia Arrigoni, Gilberto Pagani. Che ha aggiunto: «Siamo contenti perché non ci sono state pene capitali: non volevamo aggiugere morte a morte».

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