domenica 31 marzo 2019
Come un monastero medievale, ma nel cuore dell’Africa. A Bimbo, dal monastero di Nostra Signora del Monte Carmelo è arrivato aiuto alla popolazione in fuga
Sotto, i pigmei di Ngouma

Sotto, i pigmei di Ngouma

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Come un monastero medievale, ma nel cuore dell’Africa, sotto una fitta foresta di palme. A Bimbo, alle porte di Bangui, dal monastero di Nostra Signora del Monte Carmelo è arrivato aiuto alla popolazione in fuga dalla capitale centrafricana nel momento più buio delle violenze, quando a partire dal 5 dicembre 2013 tornò il Medioevo. I ribelli Seleka, in prevalenza musulmani presero il potere con una sorta di colpo di Stato e cominciarono i massacri tra cristiani e animisti, che si unirono nelle milizie anti-Balaka. Ma padre Federico Trinchero, carmelitano alessandrino 41 enne, missionario in Centrafrica dal 2009, anche sulle colonne del nostro giornale ha sempre respinto la tesi del conflitto confessionale. Dietro la guerra e i massacri c’erano e ci sono scontri politici ed economici, le milizie sono state manovrate dalle vecchie potenze (Francia), dalle nuove (Cina e Russia) e dai Paesi confinanti (Ciad, Sudan e Camerun) per mettere le mani sulle miniere di diamanti, oro, sul legno pregiato e sull’uranio di cui la repubblica del Centrafrica è ricca.

Ma la “maledizione delle risorse” non l’ha risparmiata. «Prima c’era un equilibrio che vedeva da una parte i cristiani occuparsi soprattutto di agricoltura, piccolo commercio e dell’amministrazione; dall'altra i musulmani occuparsi di allevamento e commercio all'ingrosso. Forse c’era un sentimento di tensione e di frustrazione dei quali non eravamo coscienti». Con la guerra si è scatenata, da entrambi le parti, una violenza impensabile. Massacri e la distruzione di chiese e moschee hanno alterato gli equilibri.

«Noi – ribadisce – abbiamo accolto dentro e attorno al nostro convento migliaia di profughi. Nelle fasi più acute della guerra hanno superato i 10mila fino al 2017. Si erano accampati persino all’aeroporto della capitale poi grazie al processo di pace avviato dalla visita del Papa sono lentamente tornati a casa ». Girando per il convento, padre Federico ricorda i parti sulle panche della chiesa, il refettorio trasformato in ospedale grazie a medici sfollati e Ong, le lezioni scolastiche ai bambini, il cibo distribuito e i censimenti notturni a sorpresa nell’accampamento per evitare ingiustizie. I padri (lui è l’unico italiano, gli altri 19 confratelli sono del luogo) dirimevano perfino contese e litigi.

Quindi parla del presente, che è una fabbrica di mattoni nel palmizio piantato davanti al monastero di cui Avvenire ha seguito l’avvio. Oggi i «mattoni di pace » sono una realtà finanziata anche dalla Cei, realizzati da una decina di operai – sempre ex profughi – con un impasto di sabbia del fiume e argilla locale, a crudo, da montare a incastro. Sono un brevetto sudafricano a chilometro zero. «Costano un po’ di più – aggiunge il carmelitano – ma sono prodotti ecologici. Riparano dall'acqua nella stagione delle piogge e abbiamo sperimentato in alcuni edifici che mantiene gli ambienti più freschi». Sono già un successo.

Le tensioni in Centrafrica non sono finite dopo la firma dell’ottavo accordo di pace in sei anni di crisi. Lo conferma la strage dello scorso novembre ad Alindao, nel sudest, dove nell’assalto all’episcopio hanno perso la vita il vicario generale, un prete e 40 fedeli. I due fronti si sono spezzati e il nuovo governo formato il 3 marzo dal presidente democraticamente eletto (e supportato dalla comunità internazionale) Tuadéra ha incluso solo sei dei 14 gruppi armati formatisi dopo la dissoluzione che hanno partecipato alla firma dell’accordo di Khartum.

Il 52enne cardinale Diedonné Nzapalainga pochi giorni fa ha raggiunto in auto le regioni a maggioranza musulmana per spiegare il patto. La parte settentrionale del Paese con le piogge tra qualche settimana tornerà infatti irraggiungibile. Il presule ha lanciato l’allarme. I centri sanitari sono in condizioni pessime e i bambini «dimenticati, senza scuole e senza insegnanti». Secondo il rapporto Unicef di tre mesi fa 1,5 milioni di bambini hanno bisogno di assistenza umanitaria e quest’anno più di 43.000 sotto i 5 anni affronteranno un rischio molto elevato di morte a causa malnutrizione. Migliaia di bambini restano intrappolati nei gruppi armati, altre migliaia sono soggetti a violenza sessuale.

Per il cardinale tanta miseria potrebbe sfociare in una nuova rivolta. «specialmente se la comunità internazionale non porrà fine al traffico delle armi, che continuano ad arrivare ai ribelli dal Sudan o dalla Libia, dal Ciad o dal Darfur». Traffico spesso finanziato secondo centri di ricerca come Global Witness, con diamanti e legno insanguinati. Altro nodo, il futuro dei leader macchiatisi di crimini contro l’umanità che vorrebbero l’impunità per candidarsi.

È stato il Papa a cambiare la storia di questo Paese accendendo i riflettori dei media il 29 novembre 2015. La sua determinazione di aprire la porta dell’Anno giubilare della Misericordia nella cattedrale di Bangui e la sua scelta di incontrare i contendenti restando a dormire una notte in Nunziatura portò una tregua di almeno otto mesi. Da qui è partito il processo di pacificazione sostenuto dalla missione Onu Minusca.

«Fino alla sera prima dell’arrivo del Santo Padre – conferma Trinchero – si sparava. Se avessero chiesto a me, avrei probabilmente sconsigliato al Papa di venire o gli avrei suggerito di attendere tempi migliori. E invece è venuto. L’atmosfera è cambiata. Il Centrafrica pare aver voltato pagina anche se non ci facciamo illusioni e c’è molto da fare».

La proposta del monastero è costruire la pace dal basso, con il lavoro e la scuola attraverso progetti sostenuti dalla Cei, dalla Fao e dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo per aiutare la popolazione a risollevarsi. Le palme piantate 20 anni fa dal cuneese padre Aurelio Gazzera producono datteri trattati da operai che una volta erano profughi nell’oleificio. Lo scarto serve per realizzare olio pregiato per la cosmetica. La Fao sostiene questo progetto.

«Abbiamo suddiviso i beneficiari in 20 gruppi – spiega Janusz Czerniejewski, consulente del Fondo Onu per l’alimentazione e l’agricoltura –. A gennaio, dopo la prima fase di formazione, vorremmo selezionare 25 “startup” in grado di garantire sussistenza e autonomia alle comunità più vulnerabili». Poco distante c’è la stalla con gli zebù. La cura Yaya, 22 enne peul, pastore nomade musulmano, salvato dai carmelitani nel 2016 e poi fuggito in Ciad con la famiglia. È uno dei tanti profughi di ritorno Vive accanto al Carmelo. «Qui mi sento al sicuro e lavoro», dice e tra poco lo raggiungerà la madre. Poco distante ci sono gli edifici in costruzione della Scuola Agricola, dove una targa ricorda che è stata realizzata con fondi dell’8 per mille della Cei. È la prima a Bangui e a ottobre potrebbe accogliere un centinaio di studenti. «Speriamo di recuperare tanti giovani che hanno dovuto abbandonare gli studi, sono stati profughi al Carmel e sembrano ancora senza prospettive», conclude padre Trinchero. La sfida è sempre la stessa, spezzare le spade per farne aratri e trasformare le lance in falci. Al Carmelo di Bimbo si intravede il futuro.

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