lunedì 9 settembre 2013
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Secondo il rapporto annuale dello Stockholm International Peace Research Institute, il comparto industriale militare fa girare ogni anni circa 400 miliardi di dollari. Le spese militari rappresentano circa il 2,5% del Prodotto interno lordo mondiale, con un costo medio di 249 dollari procapite. Una leva economica importantissima, che solleva dei dubbi sulle guerre, spesso utilizzate da alcuni Paesi per far cassa.
Fabrizio Battistelli, presidente di Archivio Disarmo, quali sono attualmente i Paesi che investono maggiormente in armamenti?Sono le principali potenze del mondo e ovviamente, di gran lunga, al primo posto gli Stati Uniti. Ci sono poi anche la Cina, la Russia e gli altri Paesi di nuova industrializzazione, come l’India e il Brasile, che sono anche importanti produttori. E soprattutto, ci sono poi i Paesi europei - Gran Bretagna, Francia e Italia - con diverse specializzazioni nel mercato delle armi. Questo è ovviamente un fenomeno che riguarda non solo le grandi potenze: fa impressione vedere Paesi africani che investono moltissimo in armamenti, quando invece quei fondi potrebbero essere impiegati in politiche sociali, che sono praticamente inesistenti… Certamente. In quel caso, il ruolo del Paese che importa è quello non di produrre e vendere e eventualmente anche guadagnare su queste transazioni, ma al contrario di pagare per esse, anche se spesso con forme più o meno assistite di credito, perché i Paesi produttori pur di vendere fanno ogni tipo di sconto. Comunque, sempre di un onere si tratta e si tratta di risorse che vengono, per intero, spostate verso il settore bellico da quelli che invece potrebbero essere dei compiti di natura sociale: quindi per combattere la fame, per promuovere lo sviluppo in particolare agricolo e industriale, per la salute, per l’educazione… Ci può fare un esempio concreto di uno di questi Paesi? La Sierra Leone: un piccolo Paese dell’Africa occidentale che è stato un acquirente di armi, per esempio di armi leggere anche da parte dell’Italia. Sono casi - questo come altri - che dimostrano che di fronte poi all’uso della forza come strumento politico non si bada a spese. Ci sono alcuni economisti che, cinicamente e ovviamente con vedute molto particolari, dicono che solo una guerra mondiale potrebbe azzerare la crisi economica e risollevare il mondo. È davvero così? Guardi, non si tratta soltanto di economisti cinici che potrebbero anche auspicare una cosa del genere, sebbene mi sembra abbastanza strano che lo facciano. Diciamo che più che altro è una posizione realistica questa, più che cinica: nel senso cioè che è un dato storico che gravi momenti di recessione o addirittura di crisi strutturale, come quella finanziaria del ’29, hanno trovato nella guerra - in quel caso nella II Guerra Mondiale - un elemento anticongiunturale che ha rimesso in moto il processo di accumulazione di sviluppo. Naturalmente, questo non è un percorso obbligato, è evidente. Diciamo che la produzione di armi e la relativa spesa militare rappresentano, per così dire, il luogo di minor resistenza nel quale ci può essere la tentazione di canalizzare le risorse: può essere più facile fare una guerra. Il punto è che oggi diventa più difficile fare una guerra. Oggi, in un mondo multicentrico, è estremamente pericoloso innescare qualunque azione di forza che, anche intenzionalmente e quindi senza volerlo, può poi dare vita a un conflitto che, in questo caso, sarebbe veramente e definitivamente distruttivo. Pensiamo in questo caso a cosa potrebbe accadere in Medio Oriente...
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