giovedì 12 maggio 2016
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NEWYORK Bernie Sanders vince in West Virginia e non molla la gara, dimostrando la sua presa su larghe fette dell’elettorato democratico e costringendo Hillary Clinton a dedicare risorse alle primarie che vorrebbe mettersi alle spalle. Donald Trump trionfa in West Virginia e in Nebraska e sfiora la “magica” soglia dei 1.237 delegati necessari per aggiudicarsi formalmente la nomination repubblicana prima della convention di Cleveland a luglio. Ma se a parole il miliardario non cede terreno ai leader del partito conservatore, riluttanti a schierarsi al suo fianco, i suoi gesti rivelano che sta cercando la riconciliazione, non per ideologia ma per necessità: i costi della campagna lo costringono infatti a cercare donatori fra l’élite del Grand Old Party (Gop). Anche Hillary Clinton è a un passo dalla nomination, ma il suo rivale Sanders è deciso a restare in campo «fino all’ultimo voto rimasto», ha avvertito ieri. Il senatore del Vermont può contare su sondaggi favorevoli e probabili vittorie in Oregon e Kentucky, che non colmeranno il distacco accumulato dall’ex first lady. I suoi risultati mettono però in evidenza la debolezza di Clinton fra i giovani e fra alcune categorie di lavoratori, come i minatori della West Virginia. L’ex segretario di Stato resta comunque proiettata verso le elezioni generali: «Non vedo l’ora di dibattere contro Trump», è stato l’unico suo commento dopo la sconfitta. Il problema di Trump, in questo momento, non appare invece il gradimento della base del suo partito, che ha già conquistato, e nemmeno il sostegno dei leader del Gop, che non pare preoccuparlo, quanto l’appoggio materiale dei suoi iscritti più danarosi. La campagna elettorale del tycoon si è finora finanziata con piccole donazioni degli elettori e con prestiti del candidato, ma ha bisogno di un’infusione di contanti per poter affrontare la mac- china da guerra elettorale dei Clinton. Gli imprenditori e le aziende che di solito sostengono la destra rimangono però in attesa di vedere un Trump più in linea con l’ortodossia di partito, prima di aprire il portafogli. Si spiegano così i toni conciliatori che il miliardario ha usato di recente su alcuni temi cari ai conservatori. In una intervista a Israel Hayom, quotidiano vicino a Benjamin Netanyau, il magnate (che in passato ha messo in dubbio la volontà di Israele di raggiungere un accordo di pace) ha annunciato che «presto» andrà in visita in Israele e ha attaccato l’attuale inquilino della Casa Bianca, colpevole, a suo dire, di aver fatto crescere «la minaccia contro Israele». Anche sulle tasse il candidato in pectore del partito repubblicano è intenzionato a modificare sostanzialmente i programmi di politica fiscale portati avanti sinora, abbandonando un piano di defiscalizzazione che ha incontrato numerose critiche da parte di politici ed economisti anche conservatori. Inoltre, dopo aver snobbato il consenso dello speaker repubblicano della Camera, Trump ha deciso di incontrarlo, oggi stesso, per cercare un terreno comune. «Io e Trump dobbiamo conoscerci meglio», ha detto ieri lo stesso Paul Ryan, aggiungendo che «il nostro obiettivo è quello di unificare le varie correnti interne al partito e non presentarci alle elezioni con metà della nostra forza». Nei suoi comizi, però, Trump continua a difendere la sua indipendenza dalle alte sfere del partito, forte di sondaggi che lo fotografano alla guida di una crescente e formidabile movimento popolare. Proprio ieri un recente sondaggio prospettava addirittura un testa a testa fra lui e Clinton a novembre. Secondo un rilevamento Reuters/Ipsosl’ex first lady riscuote il 41% delle preferenze sul piano nazionale e Trump il 40%. Soltanto la scorsa settimana Hillary dominava con un vantaggio di 13 punti percentuali. © RIPRODUZIONE RISERVATA NON SI ARRENDE. Bernie Sanders in un comizio a Stockton in California (Reuters)
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