sabato 4 giugno 2022
Tornano le accuse, dopo anni di voci negate sulle pratiche nei sinistri centri di reclusione del partito: uno studio scientifico ha documentato 71 trapianti. Lavee: «Non sono casi isolati»
Detenuti cinesi verso il patibolo nel Guandong

Detenuti cinesi verso il patibolo nel Guandong - Ansa

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Sembrava ormai relegata in un angolo oscuro della storia e destinata all’oblio come i “laogai” chiusi o, meglio, riciclati con diverse denominazioni nel 1994 ma per molti anni indicati come epicentro del fenomeno degli espianti di organi destinati a soddisfare le necessità di trapianto interne ed esterne alla Repubblica popolare cinese.
In realtà la pratica sarebbe ancora attiva e coinvolgerebbe non solo le vittime di esecuzione, ma anche espianti da individui in vita. La denuncia arriva da uno studio scientifico pubblicato sulla rivista specializzata American Journal of Transplantation all’inizio di aprile ma i cui risultati – per quanto limitati fino al 2015 – sono stati rilanciati dal quotidiano newyorkese The Wall Street Journal. Il dato di partenza è che su 125mila pratiche di donazione esaminate da Jacob Lavee, chirurgo e direttore dei trapianti del Sheba Medical Center di Tel Aviv, e dall’australiano Matthew Robertson, esperto del Victims of Communism Memorial Foundation, almeno 71 sarebbero in contrasto palese con la prassi internazionale che non accoglie l’espianto gli organi vitali da una persona che non sia stata dichiarata ufficialmente morta o in morte cerebrale oppure non consenziente. La violazione prolungata di questa regola proverebbe per Lavee, che lo ha confermato in un’intervista al quotidiano israeliano Haaretz, «che non si tratta di casi isolati o temporanei».
«La Cina – ha proseguito Lavee – riconosce le regole sull’espianto dopo la morte, ma in diversi casi documentati non risulta abbia condotto i test necessari per verificare il decesso cerebrale». Con anche un risvolto inquietante perché, ha indicato, «i documenti analizzati dallo studio mostrano che i medici cinesi hanno partecipato all’esecuzione per evitare di perdere l’organo per mancato coordinamento". «Migliaia di documenti sono stati pubblicati in Cina sul trapianto di cuore e polmoni, ma la maggior parte non dice nulla di come sia stato trattato il donatore», hanno ribadito Lavee e Robertson, segnalando che i dati sono emersi da normali ricerche di routine ma non sono sono stati considerati problematici da altri studiosi o istituzioni, tra cui l’Oms, su cui Pechino esercita una forte influenza.

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