venerdì 2 settembre 2022
Il «no» alla bozza scritta dall'Assemblea a maggioranza progressista in lieve vantaggio al referendum di domani. A generare critiche soprattutto la questione dei diritti indigeni
Un corteo a Valparaiso del fronte dei sostenitori della Carta

Un corteo a Valparaiso del fronte dei sostenitori della Carta - Reuters

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In termini assoluti, 22 mesi sono un periodo breve. Ma il tempo, si sa, assoluto non è. Specie il tempo cangiante della politica. Inclusa quella australe. Il 25 ottobre 2020, così, il 78 per cento dei cileni ha deciso di riscrivere la Costituzione. Appena il 44 per cento, però, poco più di due anni dopo, concorda con la Carta redatta dall’Assemblea, eletta dagli stessi cittadini. Il dato è ancora più sorprendente se paragonato a quanti sono orientati a bocciarla nel referendum di domani: 46,7 per cento. Almeno questa è la fotografia scattata dall’ultima rilevazione, del 19 agosto. I sondaggi, come più volte dimostrato, vanno presi con le pinze. Anche perché il 17 per cento degli elettori è indeciso. I giochi, dunque, sono tutt’altro che fatti, come confermato dai 500mila che giovedì sera hanno affollato l’Alameda di Santiago per manifestare a favore del «sì» alla Costituzione. Al raduno del «no» erano poche centinaia.
Due fatti sembrano, però, inconfutabili. Chiunque vincerà, lo farà per per poco. E, in entrambe le ipotesi, la consultazione non metterà fine al processo costituente. L’ampia maggioranza che si sperava coagulare intorno al nuovo patto sociale politico cileno non ci sarà. Per questo, il presidente Gabriel Boric, appartenente alla sinistra movimentista e sostenitore del «sì», insieme a socialisti e democristiani, ha promesso che, in caso di approvazione, le parti più spinose del testo verranno “ammorbidite” dal Congresso.
A suscitare contestazioni è soprattutto il “nodo indigeno”. I popoli nativi rappresentano il 13 per cento dei 19 milioni di cileni. Insieme all’Uruguay, il Paese australe è l’unico a non menzionarli nell’attuale Carta, scritta nel 1980, durante la dittatura, ancora vigente nonostante i numerosi correttivi introdotti dal ritorno alla democrazia. La Costituente ha riservato agli indigeni 17 seggi su 155 e il primo semestre è stata presieduta dall’accademica mapuche Elisa Lachón. Questi, insieme alla maggioranza progressista, hanno dato alla bozza un impianto avanzato per quanto riguarda il riconoscimento dei diritti dei nativi. A cominciare dal primo dei 388 articoli, che definisce il Cile uno Stato «plurinazionale». I popoli originari sono menzionati in altre 55 parti. A questi ultimi vengono garantite quote in tutti gli organismi eletti, nonché autonomia territoriale e protezione sui loro appezzamenti. Uno dei punti più critici è il riconoscimento di un sistema di giustizia indigeno parallelo a quello nazionale. Un “vulnus” – sostengono i detrattori – al principio di uguaglianza giuridica di fronte alla legge. Gli stessi favorevoli dicono che, se il testo la spunterà, questa parte sarà circoscritta all’ambito locale e non penale. Elemento, importante, è anche – per la prima volta – la «costituzionalizzazione» della crisi climatica e dell’impegno dell’esecutivo per contrastarla. Un ultimo tratto distintivo è la questione della parità di genere, tema caro alla prima Costituente composta in ugual numero da donne e da uomini. Questa, a cui sono dedicati 35 articoli, è assicurata in ogni ambito. Accanto ad aspetti innovativi come la definizione di «democrazia solidale» e di «diritto alla cura», l’articolo 61, però – e questo è uno dei punti divisivi – afferma il «diritto all’aborto». Come pure, in altre parti, la formulazione sembra lasciare una porta aperta all’eutanasia. Aspetti che la Conferenza episcopale cilena ha valutato «negativamente».
I vescovi, però, hanno invitato i cittadini a discernere se la bozza, nel suo insieme, risponda all’esigenza di costruire il bene comune per tutti, soprattutto per i più vulnerabili. Impossibile non ricordare le parole profetiche del cardinale Raúl Silva Henríquez, storico difensore dei diritti umani: «Il Cile siamo tutti. Però siamo diversi e dobbiamo rispettarci a vicenda».

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