sabato 16 novembre 2013
​L'ex leader socialista favorita, ma la conservatrice Matthei non si arrende. Oltre 12 milioni di cittadini chiamati ai seggi per rinnovare il Parlamento. Ma si teme una forte astensione: la partecipazione non è più obbligatoria (di Lucia Capuzzi)
COMMENTA E CONDIVIDI

Non è un caso che sia Michelle Bachelet sia Evelyn Matthei, le due principali sfidanti alla Moneda, abbiano concluso le rispettive campagne, nella notte tra giovedì e venerdì, con un appello alla partecipazione elettorale. «Per la prima volta dal ritorno della democrazia, nel 1988, le presidenziali cilene si svolgeranno domani – insieme alle parlamentari – in un contesto di voto volontario», sottolinea Joaquín Fermandois, storico dell’Università Pontificia di Santiago e noto analista. Il precedente esperimento – le elezioni municipali del 28 ottobre 2012 – si è rivelato inquietante. Allora, ben il 60 per cento dei 12,5 milioni di aventi diritto non si è presentato alle urne. L’incubo dei “seggi vuoti” tormenta tutti i nove candidati, inclusa la superfavorita Bachelet. Gli ultimi sondaggi la vedono in testa con il 47 per cento delle preferenze. Non solo. La pediatra socialista e leader di Nueva Mayoria – lo schieramento di centrosinistra nato lo scorso aprile al posto della Concertación – ha uno scarto del 33 per cento sulla conservatrice Matthei. Con un tale margine non si esclude una vittoria di Bachelet – prima donna a governare il Paese tra il 2006 e il 2010 – al primo turno, senza cioè andare al ballottaggio del 15 dicembre. «Oltre al tasso di astensione, questa è l’altra incognita. Insieme all’entità dell’eventuale sconfitta della candidata di destra», aggiunge Fermandois. L’esponente dell’Alianza – il partito attualmente alla Moneda – è, al momento, al 14 per cento ma potrebbe “calare” ancora, incalzata dall’imprenditore populista Franco Parisi e dal progressista Marco Enriquez-Ominami. Il “sorpasso” produrrebbe un vero e proprio terremoto politico, «facendo venir meno uno dei due poli storici che ha retto il Paese nel dopo-Pinochet», dice lo storico. Un dato apparentemente paradossale.Il governo della destra può vantare dei soddisfacenti risultati economici: il Cile è cresciuto tra il 4 e il 6 per cento negli ultimi quattro anni, la disoccupazione sfiora il 6 per cento, la cifra più bassa dal 2001 e il dinamismo delle imprese è indiscusso. Il che ha permesso al Paese di aggiudicarsi il soprannome di “giaguaro dell’America Latina”. Eppure i cittadini sono insoddisfatti, soprattutto i giovani come hanno dimostrato le proteste universitarie dell’anno scorso. Un fenomeno «di intensità pari o superiore al maggio francese. E ritengo sia un effetto collaterale dello sviluppo. Si chiede maggiore redistribuzione e migliori servizi sociali. Domande tipiche di una nazione stabile e avanzata», conclude Fermandois. Questi sono stati i temi forti della campagna elettorale. Sullo sfondo sono rimaste, invece, le questioni etiche. Bachelet in passato si è detta favorevole alla legalizzazione dell’aborto e delle nozze gay. Stavolta, però, ha glissato, come pure Matthei, in generale, contraria. È probabile che sul boom della socialista abbia influito anche il capitale simbolico: il suo passato da esule non è sfuggito all’elettorato nel 40esimo anniversario del golpe. La candidata di destra, invece, ha scelto la linea intransigente, al contrario dell’attuale presidente, Sebastián Piñera. Forse per questo non tanti ricordano il ruolo chiave del padre, Fernando, nella transizione: fu lui – prima fedele alla giunta – ad annunciare la vittoria del “no” al plebiscito del 1988, forzando Pinochet al ritiro.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: