giovedì 1 novembre 2018
Axel, 14 anni, è la mascotte dell'esodo I messicani di Pijijian si sono tassati per comprargli una sedia a rotelle. Trump: stretta sul diritto d'asilo
Axel Molina, 14 anni, è fuggito con la famiglia dal Nicaragua

Axel Molina, 14 anni, è fuggito con la famiglia dal Nicaragua

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«Sono stanco, sì ma non posso darmi per vinto. Non voglio rallentare la fuga della mia famiglia. Dobbiamo arrivare negli Stati Uniti. Là i miei genitori e mia sorellina saranno al sicuro. E magari potrò essere operato. Ho visto gli ospedali Usa in una serie tv: là sanno curare qualunque problema. Magari camminerò di nuovo». E si è rimesso in marcia. Alle 4, prima dell’alba, per evitare le ore più calde, insieme a tutti gli altri. Mentre il resto della comitiva cammina, Axel Molina arranca con la carrozzina sulle strade, non sempre asfaltate, dell’Oaxaca. «I momenti più difficili sono quando le ruote si incastrano. Ma trovo sempre qualche fratello honduregno che mi dà una spinta. Se il terreno è troppo scosceso proseguo con le stampelle. In alcuni tratti, gli altri profughi mi hanno portato perfino in braccio. Sono tutti molto solidali», racconta Axel ad “Avvenire”;. L’avere perso l’uso della gamba destra non ha impedito a questo ragazzino di 14 anni, nato e cresciuto a Diriamba in Nicaragua, di mettersi in viaggio con la prima Carovana. Si è unito agli altri il 22 ottobre quando la Carovana, in gran parte costituita da honduregni, ha raggiunto Tapachula, in Messico, dopo il pellegrinaggio in territorio guatemalteco. Là, i Molina si trovavano impantanati in lungaggini burocratiche dal 27 luglio, dopo che le organizzazioni per i diritti umani erano finalmente riuscite a farli uscire dal Nicaragua. Troppo pericoloso restare: la polizia e le “turbas”, le bande paramilitari agli ordini del presidente Daniel Ortega, davano loro la caccia senza sosta. Il delitto di cui li accusavano era grave: «Terrorismo».

In fuga dalla repressione

«In realtà, la nostra colpa è stata quella di partecipare alle manifestazioni di protesta esplose nel Paese dal 14 aprile. Non me ne pento. Ma l’abbiamo pagata molto cara», sottolinea Idania, la madre di Axel. La donna ha perso il lavoro di maestra e la bancarella di vestiti usati con cui arrotondava il magro stipendio. Lo stesso è accaduto al marito. La figlia undicenne ha lasciato la scuola. «Il peggio, però, l’hanno fatto ad Axel», dice la mamma. Il ragazzino, insieme agli amici, partecipava ai “tranques” (blocchi stradali), organizzati dall’opposizione a Diriamba, una delle roccheforti della “rivolta”. «Perché l’ho fatto? Prima Ortega voleva ridurre la pensione a mia nonna che già così non riesce a tirare avanti. Poi, i suoi uomini hanno pestato la mia sorella maggiore durante un corteo a Managua. Volevo solo fare la mia parte». Nei primi mesi, il governo, in palese difficoltà, ha tollerato i “tranques”. Poi, il 7 luglio, ha sferrato “l’operazione pulizia” per ristabilire “l’ordine”. A cominciare da Diriamba. Per due giorni, la cittadina è stata bersaglio di attacchi mirati, con almeno undici morti. Perfino il cardinale Leopoldo Brenes, il vescovo ausiliare di Managua, Silvio Báez e il nunzio Waldemar Sommertag, giunti per mediare, sono stati aggrediti. Tanti sono stati feriti. Axel è uno di questi. «Erano le 5.30 del mattino dell’8 luglio quando sono arrivati e ci hanno sparato addosso. Molti di noi li hanno portati via. A me, un proiettile ha lacerato la tibia». Nonostante la ferita, il ragazzino è riuscito a fuggire. E, da allora, continua a farlo.

La solidarietà dei profughi

«Non voglio morire. E non voglio che muoiano i miei cari. Per questo proseguo, anche se è difficile». Il Messico non era più sicuro. «Avevano minacciato la mamma». Tentare il viaggio verso il confine Usa con qualche trafficante impossibile per la mancanza di mezzi. Oltre che troppo pericoloso. Così i Molina si sono aggregati alla Carovana. Da Tapachula, Axel è partito sulle sue stampelle. «Non avevamo i soldi per una sedia a rotelle. Gli altri profughi, però, ci hanno detto: “Venite, non preoccupatevi, cercheremo di darvi una mano. È così è stato. Quando Axel era sfinito, i ragazzi più forti lo prendevano sotto braccio e, in pratica, lo trascinavano. Lo hanno anche portato sulle spalle», afferma Idania. Così è andato avanti per 148 chilometri. «Lo vedevo arrancare, era distrutto. Pensavamo di mollare, era troppo per lui», prosegue la madre. All’arrivo a Pijijiapan, però, il presidente municipale ha donato ad Axel una sedia a rotelle. Regalo della cittadina che si era organizzata con una specie di colletta. «Quando l’ho vista, sono scoppiata a piangere. Non potevo crederci. Era la risposta alle mie preghiere», dichiara Idania. «Ora che ho il mio bolide non mi ferma più nessuno. Raggiungeremo la frontiera», le fa eco il figlio. E poi? Axel scuote le spalle mentre Idania afferma: «Presidente Trump, so che lei ha dei figli. La prego, ci faccia entrare. Non vogliamo fare male a nessuno negli Stati Uniti. Vogliamo solo trovare un luogo sicuro dove vivere. Lavoreremo sodo, non se ne pentirà».

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