sabato 20 luglio 2013
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Il futuro del leggendario wel­fare tedesco non è scontato e dipende dai migranti. Georg Cremer, 61 anni, economista, un’esperienza ultradecennale nel­la cooperazione, dal 2000 è il se­gretario generale della Caritas te­desca, organizzazione con 600mi­la dipendenti (in pratica il più grande datore di lavoro in Ger­mania), che come la Diakonia e­vangelica gestisce i servizi socio sanitari in regime di sussidiarietà e collabora con governo, Parla­mento e Corte costituzionale. U­na delle poche voci istituzionali critiche verso una politica migra­toria con tendenze elitarie e la flessibilità spinta che rischiano di creare disuguaglianze. Con lui af­frontiamo il tema della difesa del­lo stato sociale e delle politiche di inclusione in un Paese che da ma­lato d’Europa è tornato ad esser­ne la locomotiva, ma con una cre­scente polarizzazione sociale. È ancora sostenibile il sistema di welfare tedesco? È garantito nella Costituzione, va aggiornato in continuazione: so­no convinto che un buon sistema di sicurezza sociale sia parte del­la vita quotidiana. La Germania ha un’economia forte, dovremo affrontare i costi del cambiamen­to demografico, ma il nostro si­stema di protezione sociale avrà futuro. Come andrebbe riformato se­condo voi? A metà dello scorso decennio la Germania ha varato riforme del mercato del lavoro e della sicu­rezza sociale a supporto dei di­soccupati. Il problema principale è che ci sono molti giovani non qualificati o con una formazione professionale tale da non per­mettere di trovare lavori decenti. Dobbiamo migliorare il sistema scolastico per migliorare le con­dizioni di chi ha perso il lavoro ed è privo di formazione adeguata. La Germania soffre infatti di ca­renza di lavoratori specializzati e la disoccupazione – mediamente bassa, con punte in alcune regio­ni – è dovuta alla mancanza di qualifiche. Chi sono allora gli esclusi dal boom tedesco? Stanno peggio gli anziani con pensioni minime, le madri sole, i migranti con bassa formazione professionale e i disoccupati 50enni di lungo periodo. Per que­sti gruppi le possibilità di accesso a lavori dignitosi sono a rischio. Restano poi fuori dal nostro siste­ma di sicurezza sociale gli immi­grati irregolari o i neocomunitari come romeni e bulgari che in al­cuni casi non hanno diritto ad un’assicurazione sanitaria. Que­sta è una grande questione per la Caritas, vogliamo assicurare a o­gni persona in Germania il diritto all’assistenza. Restano in genere le grandi differenze tra Est e Ove­st, la disoccupazione è superiore nei vecchi länder della Ddr dove i redditi sono più bassi. Sta cambiando l’atteggiamento verso i migranti? I gruppi politici e la gente comu­ne stanno capendo che la Ger­mania è un Paese che dipende dall’immigrazione. Per anni ci sia­mo illusi del contrario, ma per i cambiamenti demografici e la mancanza di lavoratori qualifica­ti dovremmo dare il benvenuto a chi sceglie di venire a vivere e la­vorare qui. Così il dibattito politi­co è cambiato, anche se c’è anco­ra paura che la politica a volte a­limenta. Alcune città hanno addi­rittura aperto uffici dell’acco­glienza. Questo, però, presuppo­ne una cultura del riconoscimen­to per gli stranieri già residenti. Ci sono leggi che ancora li discrimi­nano, come ad esempio il fatto che per alcune professioni prima vengano i tedeschi. Solo dal 2012 una legge parifica i titoli di studio conseguiti all’estero Cosa chiedono Caritas e Confe­renza episcopale alle forze politi­che in queste elezioni? Di migliorare la situazione socio sanitaria dei migranti e di chi vi­ve senza permesso di soggiorno. Ai non comunitari non è ancora concessa la doppia cittadinanza e c’è il problema degli irregolari. Vo­gliamo migliorare le loro condi­zioni di vita togliendo la paura di espulsioni. Abbiamo presentato proposte su come migliorare la si­tuazione degli anziani che neces­sitano di cure intensive e delle per­sone che soffrono di demenza. E su come migliorare il supporto ai disoccupati di lungo periodo che non sono in grado di tornare nel mercato del lavoro. Hanno biso­gno di assistenza sociale, a volte psicologica, e di sussidi di disoc­cupazione più alti. Troppe perso­ne sopra i 50 anni in esubero so­no disoccupate. Se vogliamo per­sone qualificate, ci serve una cul­tura dell’accoglienza e del rico­noscimento per tutti, nessuno e­scluso .
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