giovedì 29 dicembre 2011
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«È un delitto perfetto. Per­ché la vittima ufficial­mente non esiste. Chi può accusarti allora di averla sequestrata, torturata, uccisa?» Eppure le vittime ci sono. Arturo, 30 anni, salvadoregno, picchiato e più volte derubato; San­dra, anche lei trentenne e salvadore­gna, scampata in extremis a un tenta­tivo di stupro e di sequestro; Marisol, honduregna di 24 anni e meno fortu­nata di Sandra: è stata rapita e violen­tata per tre mesi da più di 50 uomini. A José, 14 anni, guatemalteco, troppo gracile per essere “sfruttato”, gli aguz­zini hanno ordinato di stendersi sul­l’asfalto e gli sono passati sopra con un furgoncino: si è salvato fingendosi morto. Non somigliano per niente a dei fantasmi queste vittime in­visibili. Hanno necessità fin troppo umane: mangiare, be­re, dormire, lavarsi. E sanno che nell’Albergue Hermanos del Camino potranno soddi­sfarle. L’Albergue non è proprio un hotel: è un ampio sterrato su cui sorgono tre palazzine di cemento grezzo. Senza pavi­mento e porte: teli separano i diversi ambienti e chiudono le finestre, cer­cando di sbarrare il passo agli insetti. Inutile. Il loro ronzio affolla le notti tro­picali di Ixtepec, nel cuore dello Stato messicano dell’Oaxaca. Un punto stra­tegico: un terzo dei circa 500 mila mi­granti centroamericani che, ogni an­no, attraversano illegalmente il Mes­sico per raggiungere gli Usa, passa da qui. Vi arrivano, dopo 12 ore di per­corso da Arriaga, in Chiapas, a bordo della “Bestia”: un sarcofago di ferro che i messicani chiamano “treno merci”. Nei vagoni viaggiano mattoni, grano, legumi. Sopra, aggrappati al tetto, si spostano – clandestinamente – i mi­granti. Tutti li vedono, nessuno li guar­da. Sono irregolari: non figurano in al­cun registro, non hanno documenti né diritti. Gli abusi nei loro confronti sono una “consuetudine” antica: “pe­daggi” ai macchinisti o ai poliziotti per poter proseguire, rapine, pestaggi. «O­ra però i migranti di passaggio in Mes­sico vanno incontro a un’ecatombe. In questa guerra che da 5 anni insan­guina il Paese, i centroamericani sono una preda remunerativa e facile da catturare». Il linguaggio crudo di don Alejandro Solalinde Guerra contrasta con l’aspetto mite del sacerdote. In­tervistarlo è un’impresa: ogni minuto qualche “ospite” si avvicina con una richiesta: sapone, medicine, colla per riparare le scarpe. Per tutti quest’uo­mo magro, minuto, occhi neri che spuntano dagli occhiali, si inventa u­na soluzione e un sorriso. Sono i “suoi” migranti: in 12 mila, ogni mese, pas­sano dall’Albergue, nell’intervallo – che dura ore o giorni – tra l’arrivo del treno e la nuova partenza. Don A­lejandro vive per loro e con loro dal 2007, quando ha lasciato la parrocchia di Espinal e ha fondato l’Albergue. Al­lora, la narco-guerra era appena co­minciata. Nel 2006, il neoeletto presi­dente Felipe Calderón scatenò una fe­roce offensiva contro le gang del nar­cotraffico. Queste reagirono portando la violenza a livelli esponenziali. Fi­nora nessuno ha vinto, nel frattempo sono state uccise 60mila persone. Per finanziare la guerra, i trafficanti han­no ampliato le attività criminali. Così, è nato il business del “sequestro dei migranti”: oltre 20 mila rapimenti al­l’anno – solo quelli censiti – per un guadagno netto di 50 milioni di dolla­ri, secondo la Commissione naziona­le per i diritti umani. I narcos costrin­gono i macchinisti a fermare “la Be­stia” in zone disabitate. Rapiscono i migranti – diverse decine alla volta – e li tengono nelle cosiddette “case di si­curezza”. «Qui fanno la cernita: gli “i­nutili” anziani vengono ammazzati. A chi ha familiari negli Stati Uniti viene estorto il numero di telefono in modo da chiedere il riscatto: dai 2 ai 7 mila dollari, sanno che non sono persone ricche. I giovani vengono arruolati con la forza, i bambini e le donne venduti sul mercato del sesso. Altri finiscono in quello degli organi». Fonti locali par­lano di “centri” a Città del Messico, Ve­racruz, Tabasco dove vengono prati­cate le asportazioni con la complicità di medici. Malati facoltosi e con pochi scrupoli sono disposti a sborsare an­che 100 mila dollari per un rene o un fegato. «Nel 2007 ho incontrato un mi­grante brasiliano sopravvissuto all’a­sportazione di un rene. E non è stato l’unico», racconta don Alejandro. Nel­le discariche della capitale, spesso, vengono trovati cadaveri di centroa­mericani senza occhi o stomaco. Il primo sequestro lo ricorda bene don Alejandro: il 10 gennaio 2007 “spari­rono” 12 migranti. «All’epoca, portavo cibo e coperte alla stazione per i di­sperati della Bestia. Quella mattina, quando arrivai, alcuni scam­pati mi dissero che la polizia aveva catturato i compagni e li aveva venduti ai narcos». Il sacerdote denunciò alle au­torità che non gli credettero: hanno continuato a negare i sequestri fino a quando, nel­l’agosto 2010, a San Fernan­do, in Tamaulipas, è stata scoperta una fossa con i ca­daveri di 72 migranti centroamerica­ni. E anche dopo, hanno fatto ben po­co. La famosa “legge Solalinde” – per­ché approvata il 25 giugno 2011 grazie alle pressioni del sacerdote e della Chiesa cattolica – è tuttora lettera mor­ta. Il Messico si è impegnato a dare un permesso di soggiorno provvisorio a­gli irregolari di passaggio in Messico ma finora non l’ha fatto, perché man­ca il regolamento attuativo. Quel giorno del 2007 don Alejandro decise di dare ai migranti un luogo si­curo. L’Albergue appunto. Prima com­prò il terreno, pagandolo di tasca pro­pria. «Chiesi a tutti gli amici – precisa – dieci pesos (50 centesimi)». All’inizio dormivano per terra, sui cartoni. Poi, pian piano, insieme a qualche volon­tario don Alejandro ha cominciato a costruire gli edifici, mai finiti. L’unico “pezzo” completo è il muro di cinta: il sacerdote l’ha realizzato grazie ai 325 mila pesos (18 mila euro) donatigli dal Papa dopo che il 24 giugno 2008 una folla, sobillata dai criminali con la con­nivenza delle autorità, cercò di dar fuoco all’Albergue e al suo fondatore. Le minacce e le aggressioni dei narcos sono costanti: il sacerdote intralcia gli “affari” e sottrae loro quella “miniera d’oro” che sono i migranti. Per questo, “el padre” è da 10 mesi sotto scorta. Tre poliziotti lo seguono nella sua cor­sa quotidiana. La giornata è scandita dai ritmi della Bestia che arriva nelle ore più impensate, alle 5 del mattino come alle due di notte. «A volte è fati­coso, ma qui sono felice», sorride don Alejandro. Poi, si alza di scatto. La Be­stia sferraglia sui binari che passano dietro l’Albergue. Il fischio sordo – il suo rantolo – significa che presto si fer­merà. I migranti scenderanno stanchi, affamati, assetati, sperduti. E anche stavolta don Alejandro sarà lì, a dire loro: «Bienvenidos».
il ricovero di SaltilloLA POSADA: DENTRO REGNA LA PACE, FUORI SPADRONEGGIANO I NARCOS«Vedi, quello lì in fon­do è un “pollero” (trafficante)… È troppo sicuro di sé, troppo di­sponibile, estroverso. L’hanno mandato Los Zetas per prendere informazioni e rapire i migranti appena andranno via da questa casa. Ora lo dirò a padre Pedro, così indagherà ed eventualmen­te lo caccerà», dice Oscar sotto­voce. Il giovane fa il volontario nella Belén-Posada del Migrante di Saltil­lo, uno degli oltre 54 ricoveri della Chiesa sparsi per il Messico. A fon­darla, 11 anni fa, è stato il sacerdote Pedro Pontoja. La grande casa bian­ca – che lo scorso 12 ottobre ha rice­vuto il premio internazionale per i diritti umani Letteriel-Moffitt – al momento ospita 130 migranti. Gli ultimi 80 sono arrivati con il treno del mattino da Lechería, vi­cino a Città del Messico. Per far posto ai nuovi sono stati piazza­ti dei materassi negli spazi co­muni: i letti sono solo 50. La Posada dista solo pochi chilo­metri dal centro. Eppure sembra un’altra città. Racchiusa dalla Sierra Madre orientale, Saltillo – nel Nordest del Messico – ha il fa­scino sonnolento delle cittadine coloniali: la cattedrale candida e imponente, il mercato, le fontane. Tutto è pulito e tranquillo. Eppu­re la narco-guerra è arrivata an­che qui. La battaglia tra i traffi­canti del Golfo e Los Zetas è e­splosa a marzo, con sparatorie, o­micidi, sparizioni. «Ora il conflit­to si è fatto visibile. La violenza, però, è cominciata ben prima», spiega don Pedro. Già da 5 anni, Los Zetas rapiscono sistematica­mente i centroamericani che pas­sano per Saltillo nel viaggio ver­so la frontiera Usa. «Su cento mi­granti che ogni giorno arrivano alla Posada, almeno 80 sono sta­ti sequestrati – spiega don Pedro. – Non tutti, però, lo raccontano. Molti sono troppo terrorizzati per farlo».I centroamericani sono “abitua­ti” alla violenza nei loro Paesi d’o­rigine. Le brutalità che infliggono loro i narcos, però, su­perano ogni imma­ginazione. «I mi­granti vengono pe­stati selvaggiamen­te con tavole di le­gno in modo da ter­rorizzarli e impedi­re che scappino. Chi lo fa e viene riacciuffato, subi­sce la mutilazione delle dita o delle mani. A volte, per divertirsi, li obbligano a com­battere fra loro come i gladiatori. Per salvarsi devono uccidere i compagni». Spesso i racconti sono così rac­capriccianti da risultare invero­simili. «Eppure i segni sui loro corpi sono inconfutabili», ag­giunge il sacerdote, anche lui or­mai nel mirino de Los Zetas. «La mia équipe ed io riceviamo di continuo telefonate mute: si sen­te solo il battito del cuore. Ogni tanto ci tagliano la luce, hanno distrutto le nostre auto. È una for­ma di pressione psicologica. Io non ho paura ma per i volontari è diverso. Molti sono terrorizzati: degli otto che avevamo ora ne so­no rimasti solo due... Eppure an­diamo avanti. Per i migranti».
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