mercoledì 19 settembre 2012
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L’ultimo affondo, ieri pomeriggio, è di Mitt Romney. In un incontro con un gruppo di manager “latinos”, il can­didato repubblicano ha annunciato permes­si di soggiorno ai migranti che abbiano con­seguito un titolo di studio superiore negli Sta­ti Uniti o svolgano il servizio militare. Poco prima, il 15 agosto scorso, è entrato in vigore lo stop ai rimpatri degli studenti irregolari va­rato dal rivale democratico – e attuale presi­dente – Barack Obama. Che, però, negli ulti­mi quattro anni di governo, non è riuscito – lui afferma per l’opposizione del Congresso – a far approvare la promessa riforma migratoria. È una guerra a colpi di annunci a effetto quella dei due aspiranti alla Casa Bianca per blandi­re l’opinione pubblica ispanica, la principale comunità immigrata nel Paese. In pratica, u­no statunitense su sei è di origine latinoame­ricana, per un totale di 50 milioni di persone. E altrettanti voti. Un pacchetto importante per vincere la competizione del 6 novembre. In quella data non si decide, però, solo il nuo­vo presidente americano. Anche sul piano lo­cale, si rinnova buona parte delle cariche. E pure qui la questione-latinos preoccupa ma non sempre in armonia con gli umori nazio­nali. Anzi, negli Stati lungo la Linea – i 3mila chilometri di confine col Messico –, tanti fan­no a gara nello sbandierare il pugno di ferro contro i migranti. Di sicuro, il primato spetta a Joe Arpaio, da vent’anni sceriffo di Marico­pa, che i media definiscono «il più duro d’A­rizona e degli Stati Uniti». «Bugie – risponde lo sceriffo ad Avvenire –: sono il più duro del mondo». Non è un timido, l’80enne Joe Arpaio. Tutt’al­tro: ama “fare notizia”, nel bene o nel mare. La sua storia – racconta – è comparsa nelle pagi­ne dei giornali Usa almeno 4mila volte. L’uffi­cio di Maricopa – che ingloba gran parte del­la periferia di Phoenix – dispone di un pool di addetti stampa che tiene l’agenda delle inter­viste. Ci si deve prenotare con ampio antici­po per conversare con l’uomo diventato fa­moso in tutto il mondo per la caccia senza quartiere agli irregolari. Costretti, una volta fermati, a dormire in tende nel deserto. Misure discusse, che gli sono valse una serie di de­nunce per violazione dei diritti umani e di­scriminazione. Oltre a un’indagine del dipar­timento federale di Giustizia, terminata qual­che settimana fa con l’assoluzione dello sce­riffo per mancanza di prove. «Non ho molto tempo ma con lei parlo perché siamo conna­zionali – dice, mischiando italiano e inglese –. I miei genitori erano di Avellino. Sono arri­vati a Springfield nel Massachussetts nel 1916». La domanda è scontata: «Ah beh, allo­ra anche lei è un migrante». «No, sono nato qui. I miei sì erano migranti, ma regolari: sono en­trati qui senza infrangere la normativa». La legge è l’ossessione dello sceriffo. «Il mio do­vere è farla rispettare, an­che a costo di essere im­popolare o di sembrare ri­gido», ripete più volte. Ma precisa: «Non ho niente contro gli ispanici. Ho una nipotina “latina” e ho viag­giato spesso in America del Sud. Ma se alcuni ispanici infrangono la legge en­trando senza documenti nel Paese devo perseguir­li». Certo, lui lo fa con estrema durezza. Otto mesi dopo la sua prima elezione, nel 1993, ha fatto costruire u­na tendopoli in mezzo al deserto in cui tiene gli ir­regolari arrestati e in atte­sa di rimpatrio. “Tent City” – come è cono­sciuta negli States – può contenere fino a 1.600 detenuti maschi. Tutti sono costretti a indos­sare l’uniforme a strisce e biancheria intima rosa. «Macché umiliazione. Lo facciamo per evitare i furti. Ai migranti non piace la bian­cheria rosa, così non la rubano quando se ne vanno. Prima spariva di continuo. Ora no. È denaro risparmiato per i contribuenti», spie­ga. Per la stessa ragione ha realizzato “Tent City”. «Grazie alle tende si spendono 50 milioni di dollari all’anno in meno. Se i nostri soldati in Iraq e Afghanistan possono dormire per me­si o anni in un sacco a pe­lo, perché non possono farlo dei prigionieri?». Col denaro risparmiato, Ar­paio sta costruendo un nuovo carcere. Per rin­chiudere – probabilmen­te – altri irregolari. «Devo farlo, infrangono la leg­ge». Inutile cercare di far­gli cambiare idea. Ci ha provato, senza successo, due settimane fa il leader della Carovana per la pa­ce messicana, il poeta cat­tolico Javier Sicilia. «Ab­biamo avuto un colloquio franco, ma ognuno è ri­masto sulle sue posizio­ni», racconta lo sceriffo. «Scusi ma ora devo andare. Però venga a tro­varmi – dice prima di concludere la telefona­ta –, magari sarò ancora qui se a novembre mi rieleggono. In ogni caso la porto a mangiare in un ristorante messicano, così vede che non ho pregiudizi».
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