venerdì 31 gennaio 2020
In tutto il Paese sono previsti festeggiamenti, anche se non tutti sono così felici. L'Isola torna in mare aperto. Ma le incognite non sono poche
Britannici favorevoli alla Brexit. Ma non tutti la pensano come loro

Britannici favorevoli alla Brexit. Ma non tutti la pensano come loro - (Ansa)

COMMENTA E CONDIVIDI

A mezzanotte, il Regno Unito esce dall’Ue. L’annosa procedura, cominciata nel 2016 con il referendum sulla Brexit, si è chiusa ieri a Bruxelles con l’adozione scritta dell’accordo di divorzio da parte del Consiglio Europeo seguita, il giorno precedente, all’approvazione del Parlamento. L’addio di Londra a Bruxelles avviene a 47 anni dal trattato che ne sancì l’unione. Il passaggio è solenne e, nonostante il governo invochi sobrietà, l’intero Paese si prepara a festeggiarlo.

Nella piazza del Parlamento, nella capitale, uno spettacolo di musica, canti e balli intratterrà il pubblico per tutta la notte. Un orologio proiettato sui mattoni neri di Downing Street, da cui è atteso il discorso alla nazione del premier Boris Johnson, terrà il countdown fino allo scoccare della fatidica ora. Luci bianche, rosse e blu, come i colori della bandiera britannica, illumineranno gli edifici di Whitehall. Ammainata per sempre dalle aste dei palazzi istituzionali la bandiera blu dell’Ue.

Tre milioni di monete da 50 penny, celebrative della Brexit, entreranno in circolazione già oggi, mentre altri sette milioni verranno coniate entro la fine dell’anno. Il motto inciso sulla nuova moneta recita: «Pace, prosperità e amicizia con tutte le nazioni». (Angela Napoletano)


Alle 5 e mezza del pomeriggio è come se scattasse il coprifuoco. D’improvviso, mentre cominciano ad abbassarsi le saracinesche dei negozi, non c’è quasi più nessuno. Non che prima per strada ci si spintonasse, anzi: mai visti così pochi clienti in una zona commerciale, segno che di denaro, in città, ne gira davvero poco. Lei, l’acciaieria, domina questa fetta di Midlands inglesi ancorata al suo passato glorioso, le ciminiere fumanti svettanti su tutto il resto, ma è un gigante guardingo, costretto ad aspettare gli eventi. Se a poche ore dall’uscita dall’Ue a Londra c’è chi prepara feste e il premier Boris Johnson si dice pronto ad accettare controlli alle frontiere perché la sovranità è più importante del commercio, qui nel Lincolnshire i giornali locali parlano proprio di questo gigante come della «prima vittima della Brexit».

Scunthorpe, quattro ore di treno a nord della capitale, due terzi di voti entusiasti per la Brexit nel 2016, potrebbe essere la Taranto d’Inghilterra. Per 150 anni questa cittadina di 70mila abitanti in mezzo al nulla della campagna inglese, raggiunta da un trenino arrancante della TransPennine Express, ha legato i propri destini a quelli della British Steel, l’acciaieria che negli anni Settanta dava lavoro a 30mila operai e che ancora oggi vede impiegate 4mila persone (20mila con l’indotto). Ma negli ultimi anni, con l’incertezza politica provocata dal rebus Brexit a dominare l’economia britannica, gli ordini e gli investimenti hanno cominciato a farsi sempre più esigui, il mercato sempre più complicato, il futuro sempre più fosco.

La situazione è precipitata fino a che, lo scorso maggio, il governo ha rifiutato ai proprietari del fondo di private equity Greybull Capital un prestito di emergenza di 30 milioni di sterline, lasciando che l’azienda fallisse. Risultato: oggi i più probabili acquirenti dell’impianto un tempo vanto dell’industria britannica sono i cinesi del gruppo Jingye, che hanno messo sul piatto 50 milioni di sterline e un piano di investimenti da 1,2 miliardi in 10 anni.

Ma gli analisti si chiedono se sarà questo il futuro di ciò che resta dell’industria britannica nell’era post-Brexit, se cioè il Regno Unito non rischi di diventare improvvisamente troppo piccolo e preda di appetiti stranieri per competere a livello globale.

A Scunthorpe dici acciaio e dici tutto. Se la squadra di calcio, caracollante nella quarta serie inglese, è soprannominata «Il ferro», il centro commerciale locale è The Foundry, la fonderia. In una piazza del centro una scultura è dedicata «a tutti i metalmeccanici di oggi e di ieri e alle loro famiglie».

I rappresentanti dei lavoratori avvertono che senza la British Steel Scunthorpe diventerà una città fantasma. «So che c’è chi usa la Brexit come una scusa, ma non lo è – incalza fuori dall’impianto un sindacalista che chiede l’anonimato –. Abbiamo perso molti clienti a causa dell’incertezza creata dal governo. E questo potrebbe costarci il futuro dell’azienda e della città. Siano benvenuti i cinesi se mantengono il lavoro». Ma in giro si parla ormai di un’intesa che verrà siglata a febbraio per almeno 500 «fuoriuscite volontarie».

Già ora Scunthorpe ha l’aria di essere in crisi d’identità. Tanti i locali vuoti, le facciate delle case fatiscenti. Ricca e prospera per anni proprio grazie alla British Steel, in un Nord inglese altrimenti povero e depresso, Scunthorpe ha disceso con la Brexit l’ultimo gradino della de-industrializzazione continentale e di un mercato che ha messo fuori gioco l’acciaio europeo. E dire che dalla British Steel escono ancora i binari per le strade ferrate di mezza Europa, compresa l’alta velocità italiana, acciaio pregiato che i cinesi non sanno produrre e che con l’acquisizione puntano a controllare.

Nelle elezioni di dicembre che hanno dato una supermaggioranza a Johnson, anche Scunthorpe, come tante cittadine delle Midlands, ha rotto con il passato, consegnando la vittoria alla conservatrice Holly Mumby-Croft e infliggendo la prima sconfitta al Labour dal 1983. Padre operaio alla British Steel quando ogni famiglia era direttamente legata all’impianto, la neodeputata è determinata ad attrarre investimenti. «Voglio che sempre meno giovani debbano lasciare la zona per mancanza di opportunità -- sottolinea -. Dobbiamo giocare un ruolo maggiore nella rivoluzione delle energie rinnovabili e utilizzare meglio la nostra forza manifatturiera».

Al Mulligans Sport Bar Andrew ricorda che i metalmeccanici hanno dato la vita per il loro lavoro: nel 1975 in undici morirono nello scoppio di un altoforno. Tredici anni dopo arrivò la privatizzazione compiuta da Margaret Thatcher. Oggi la produzione è di 2.800 tonnellate di acciaio l’anno e restano in funzione tre altoforni su quattro, ma paradossalmente saranno proprio i cinesi, che hanno contribuito con il loro dumping di acciaio a basso costo a rendere non competitiva la siderurgia europea, ad accaparrarsi un marchio che nel settore resta ambito. Johnson ha assicurato che farà di tutto per assicurare il salvataggio dell’impianto. E qui a Scunthorpe sono tutti costretti a crederci. (Paolo M. Alfieri)

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI