venerdì 30 agosto 2013
​Sono il 10% dei detenuti. I genitori non sanno a chi affidarli. La morte di un piccolo di un anno e mezzo nella rissa nel penitenziario di Palmasola ha riaperto la polemica sui baby prigionieri.
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«La cassa di Leonardito si notava subito, perché era la più piccola». Porta l’immagine dei funerali scolpita nella mente Roberto Simoncelli, coordinatore di ProgettoMondo Missionari laici America Latina (Mlal) in Bolivia. Trentatré feretri uguali contenenti i resti dei prigionieri morti nella rissa esplosa lo scorso fine settimana nel carcere di Palmasola, a Santa Cruz. A chiudere la fila, una “bara in miniatura”: quella di un bambino di un anno e mezzo. Tanti ne aveva Leonardito, una delle migliaia di piccoli reclusi negli istituti penali del Paese andino. In cui i minori rappresentano almeno il 10 per cento della popolazione carceraria. Secondo le stime preliminari dell’amministrazione penitenziaria, i “baby carcerati” sono oltre 2.100. Un registro preciso, però, non esiste. Per fonti umanitarie, dunque, sarebbero molti di più. Un caso unico al mondo. Che l’assassinio di Leonardito – massacrato insieme al padre durante uno scontro fra detenuti per il controllo dell’istituto penale – ha catapultato sulla ribalta internazionale. Eppure non è la prima volta che i minori vengono uccisi o seviziati nelle prigioni boliviane. Appena due mesi fa, ha suscitato scalpore il caso di una ragazzina di 12 anni, rinchiusa insieme alla madre a San Pedro, nella capitale, rimasta incinta dopo ripetute violenze da parte di altri detenuti. Un dramma prevedibile dato che i minori condividono gli stessi spazi, malsani e sovraffollati, degli adulti. In quell’occasione anche l’ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha espresso preoccupazione per quest’infanzia invisibile, condannata senza processo a crescere dietro le sbarre. «È una conseguenza dell’inattività dei servizi sociali. Non esiste un sistema che si preoccupi di trovare famiglie sostitutive per i figli dei prigionieri. I genitori, non sapendo a chi affidarli, li tengono con loro, ben oltre i sei anni consentiti dalla legge», spiega ad Avvenire Simoncelli. A questo si aggiungono i bimbi nati in cella. E quelli “portati” dai familiari. Gli stessi parenti, cioè, non potendo mantenerli, accompagnano i ragazzini in visita ai genitori reclusi e li lasciano là. Del resto, in Bolivia, come in buona parte dell’America Latina, il controllo statale sulle prigioni è blando, quando non assente. A comandare sono gruppi di detenuti affiliati alle mafie: sono questi a “garantire” vitto e alloggio. Oltre a gestire ogni genere di traffico illegale. «I detenuti devono pagare per tutto, perfino per avere una cella», continua il coordinatore. Sono sempre le gang a decidere se e a quali condizioni i bambini possono restare. In genere, i familiari devono pagare “un’assicurazione sulla vita” di mille dollari, più un “affitto” mensile, che va dai 100 ai 750 dollari. Le prigioni sono in pratica un grande giro d’affari per la criminalità, ma anche per poliziotti e giudici corrotti: nella sola Palmasola, il traffico di droga rende 450mila dollari al mese. Non esistono, inoltre, strutture apposite per i prigionieri minorenni, come prevede la legge. A parte il Centro Qalauma di El Alto-La Paz, terminato un anno fa dal Mlal, dopo un decennio di difficoltà, grazie al prezioso contributo della Conferenza episcopale italiana (Cei) e del governo di Roma. Qui sono ospitati 160 ragazzi tra i 16 e i 21 anni, che hanno la possibilità di frequentare la scuola o un corso professionale. «E gli effetti si vedono. Il tasso di recidiva è sceso dall’80 al 4 per cento. Per questo, stiamo cercando di costruire un altro centro a Santa Cruz – conclude Simoncelli –. Oltre a sensibilizzare il governo perché riformi il sistema di giustizia e favorisca le misure alternative alla detenzione, la vera soluzione del dramma carcerario boliviano».​​
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