giovedì 7 marzo 2013
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​Passione per il potere. In queste quattro parole è racchiusa – nell’ottica machiavelliana – l’essenza della politica. Intesa come ostinata determinazione a conseguire e conservare le redini dello Stato. Per poi governarlo, anche se non necessariamente in modo arbitrario e dispotico. Il monarca saggio alterna giustizia, capriccio e crudeltà, a seconda delle circostanze. Hugo Chávez con ogni probabilità non aveva letto il “Principe” e ben poco conosceva del filosofo fiorentino. Il suo pantheon politico di riferimento non si è allontanato mai dal “Nuovo Mondo”.Nei 14 anni da caudillo, si è aggrappato, in primo luogo, alla spada del Libertador Simon Bolívar – padre ed eroe dell’indipendenza latinoamericana –, e poi all’uniforme verde oliva – quantunque sbiadita – del “grande vecchio” Fidel Castro. Figure per altro difficilmente compatibili: Bolívar era un liberale classico, acerrimo critico di Marx e delle teorie socialiste. Fidel e il suo comunismo tropicale, oltretutto, sono il prodotto irripetibile della Guerra Fredda. Per Chávez tali finezze storiche non contavano: la politica era – prima che contenuto – passione per il potere. In senso spontaneamente machiavelliano, certo, ma arricchito dei controsensi tipici dell’America Latina, che lo scrittore Roberto Bolaño definiva «il manicomio d’Europa». Ostinazione folle – tanto da sfidare il rivale Capriles e il cancro insieme, pur di strappare il quarto mandato nel 2012 –, carisma, populismo, intransigenza, amore primitivo per il popolo e ferrea convinzione di esserne l’unico interprete possibile, insieme a una shakespeariana determinazione a «contrastare» i destini già segnati, sono tutte tessere del mosaico-Chávez. Nessuna – da sola – è capace di spiegare l’ascesa dell’ex parà, nato e cresciuto in una baracca senza pavimento. Se non forse quel discorso – insolitamente corto per chi era abituato a parlare di filato anche 8 ore – pronunciato di fronte alle tv mentre deponeva le armi, dopo il colpo di Stato fallito del 1992. «Non è una resa. Abbiamo finito. Per ora», aveva detto. Sei anni e una breve detenzione dopo, quel militare caparbio è diventato uno degli spartiacque imprescindibili della storia recente dell’America Latina. Tutti i leader del continente hanno dovuto farci i conti: c’è chi l’ha imitato, chi l’ha contrastato, nessuno, però, ha potuto ignorarlo. Il bolivarismo – il confuso ibrido da lui creato – ha ampliato lo spettro politico della regione, aggiungendo la categoria sinistra-chavista al classico schema destra-sinistra.Il modello venezuelano – ripreso con alterne intensità in Bolivia, Ecuador, Nicaragua e Argentina – e quello brasiliano – che ispira i governi di Uruguay, Salvador – hanno poco in comune. Il secondo ha fatto suo lo stile socialdemocratico, con l’incremento dello Stato sociale al fine di ridurre gradualmente le diseguaglianze.Chávez e il suo bolivarismo sono andati ben oltre: in 14 anni hanno dilatato la macchina amministrativa, portato a 2,5 milioni il numero di funzionari pubblici, nazionalizzato 1.163 compagnie, ridotto a quasi la metà le oltre 11mila aziende private che operavano nel Paese nel 1998. Grazie all’esponenziale aumento del prezzo del petrolio – sette volte più alto rispetto alla fine degli anni Novanta –, il presidente ha potuto concedere raffiche di sussidi. Sono state queste ultime – le cosiddette «misiones» – a trasformarlo nel «paladino dei poveri», una quota consistente della società venezuelana e il suo più fedele elettorato. Insieme alla “boliburguesia”, i nuovi ricchi che devono le loro fortune agli incarichi nel settore pubblico o nelle imprese espropriate.
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