giovedì 1 dicembre 2011
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«È stata una sfida restare in Uganda. Sarei potuto andare in Europa o altrove, ma è stato un bene restare e darmi a questa missione. Salvare la gente del posto: è l’impegno che mi ha mantenuto in un’area difficile come Kitgum». Il dottor Lawrence Ojom, da anni in prima linea sul fronte della lotta all’Hiv, parla con voce calma. Ugandese, è direttore dell’ospedale St. Joseph’s di Kitgum, nel Nord del Paese. Arrivato al St Joseph’s ancora studente, vi è rimasto fino a diventarne la figura di riferimento e fondando anche l’orfanotrofio annesso all’ospedale. Il centro sanitario è oggi uno dei più efficienti della regione, con 21 dipartimenti, 350 posti letto e capace di servire circa 50mila pazienti all’anno.Grandi risultati ottenuti partendo da piccoli passi. Come far comprendere a migliaia di donne che i bambini, anche se ancora in pancia, hanno bisogno di cure. Un’attenzione che può apparire banale in Occidente, ma che assume un’importanza vitale nel Sud del mondo, specialmente nella lotta all’Aids. «Quella dell’Aids in Uganda è una storia di successo – spiega Ojom –. All’inizio il focus è stato posto sul cosiddetto metodo Abc: astinenza, fedeltà e solo in ultima istanza uso del preservativo. In questo modo è stato possibile cambiare i comportamenti sessuali sul fronte della prevenzione. Anche quando più tardi sono arrivati i farmaci, la prevenzione ha continuato a ricevere molta attenzione. Solo con una combinazione di farmaci e comportamenti è stato possibile ridurre la trasmissione, specialmente da madre a figlio».È da considerazioni simili che dieci anni fa, all’interno del St. Joseph’s, è partito l’impegno dell’Ong italiana Avsi a favore della prevenzione materno-fetale dell’Aids, attraverso l’educazione sul comportamento sessuale e la riduzione del rischio, la fornitura di profilassi e terapia antiretrovirale, interventi ostetrici e cambiamenti nelle pratiche di allattamento. In dieci anni, grazie all’impegno personale di Ojom, dei suoi aiutanti e dei sostenitori di Avsi, quasi 200mila madri hanno usufruito dei servizi sanitari pre-natali e oltre 4.700 bambini sono nati senza Hiv con il programma Pmtct. I dati verranno presentati oggi a Roma, in Campidoglio, con una mostra multimediale itinerante che racconterà esperienze di questi anni di lavoro. «Le donne incinte vengono incoraggiate a sottoporsi al test dell’Hiv e sono poi seguite fino al parto con dei farmaci che consentono di ridurre la trasmissione del virus – spiega Ojom –. In questo modo nella regione di Kitgum la diffusione dell’Hiv si è ridotta dall’8,5% al 6,2%. Il successo vero, peraltro, viene dal coinvolgimento degli uomini, che sono stati educati all’impatto dell’Aids ed esortati anche loro a sottoporsi ai test. Prima solo l’1% degli uomini era coinvolto, oggi il 63%».Il progetto prevede un lavoro complesso anche a livello comunitario. «Ai malati chiediamo, una volta tornati in comunità, di essere loro stessi protagonisti di una campagna sull’Hiv e di informare sulle modalità di trasmissione del virus – sottolinea Ojom –. Queste persone sono così in grado di mobilitare anche gli altri più di quanto potremmo fare noi medici». L’accesso alle cure è notevolmente migliorato negli anni, tanto che su 3mila pazienti iscritti al programma ben 1.700 ricevono i farmaci. «Il problema è che a causa della crisi finanziaria negli ultimi tempi c’è penuria: in questo momento, per esempio, non possiamo coinvolgere più persone perché il nostro budget non ce lo consente», è il rammarico di Ojom.Quello che lo stesso medico tiene a sottolineare è che non sono solo i farmaci i protagonisti della lotta all’Hiv. «Noi diamo molta enfasi alla dignità della persona – spiega –. Va mantenuto il rispetto della dignità sia in ospedale che nella comunità, dando importanza al ruolo dei malati ed evidenziando i loro diritti. Ogni tre mesi facciamo anche un incontro con i pazienti e sviluppiamo strategie comuni». Chiederebbe qualcosa questo “medico missionario” a coloro che reggono le sorti del mondo nei Paesi ricchi? «Invocherei un sostegno vero che mi consenta di garantire più servizi – è l’unico appello – . Mi capita di dover dire a dei pazienti che non posso dar loro farmaci perché non ci sono soldi per comprarli, ed è terribile, per questo vorrei più aiuto per estendere le cure a chi ne ha bisogno».
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