sabato 25 agosto 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
​I nodi che affliggono la Siemens sono solamente a carattere aziendale o sono un sintomo di un problema più vasto di politica economica che può avere effetti anche su di noi? Lasciamo agli aziendalisti esaminare se l’impresa abbia commesso errori (anche solamente di scarsa "efficienza adattiva", ossia di poca capacità ad adattarsi al mutamento del contesto in cui opera). Nonostante la Repubblica Federale Tedesca sia l’unico grande Paese dell’Unione Europea con prospettive di crescita per il 2012 (pur se ad un modesto 1% del Pil o giù di lì), il suo export (209 miliardi di dollari Usa negli ultimi 12 mesi) abbia superato quello della Cina, il tasso di disoccupazione resti al di sotto del 7% della forza lavoro ed i consumi privati crescano a circa il 3% l’anno, l’indice di fiducia delle imprese è al livello più basso dall’estate 2009. È ancora più significativo l’indicatore delle aspettative dei dirigenti responsabili degli acquisto: non solo è tornato ai livelli di tre anni fa ma gli ordinativi dall’eurozona (Germania compresa) hanno segnato una contrazione del 5% in un anno. Inoltre, inchieste condotte dalla Confindustria tedesca tra le piccole e medie imprese suggeriscono che una percentuale crescente del comparto è in difficoltà. In contrazione severa gli investimenti, un elemento eloquente perché se le imprese non destinano risorse all’aumento della capacità produttiva ciò vuol dire che vedono davvero nero.Sono segni che «la locomotiva è stanca» (di trainare il resto della zona euro) come suggerisce The Economist? Sono indicazioni, come dicono altri, che la Germania sbaglia nel perseguire il rigore , per sé e per gli altri, e che presto si dovrà ricredere (con vantaggi anche per i Piigs, cioè Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna)?Nessuna di queste due ipotesi regge se si indossano gli occhiali dell’analisi economica. La Repubblica Federale pare avere i prodromi di un "mal tedesco" per alcuni aspetti analogo al "mal olandese" dell’inizio degli Anni Ottanta. Da un lato, come nei Paesi Bassi trent’anni fa, l’afflusso di capitali (in Olanda a ragione del gas naturale del Mare del Nord; in Germania dovuto alla "fuga" da Paesi considerati a rischio nell’eurozona) provoca un apprezzamento del cambio che rende la vita difficile all’industria manifatturiera: in un’unione monetaria non si manifesta in un aumento palese del valore internazionale della moneta ma in una "fiscal appreciation" che è il risvolto della "fiscal devaluation" riscontrata nei Piigs (in pratica aumenti dei prezzi e dei salari corrispondenti alla contrazione dei salari reali riscontrata nel Piigs).Il quadro è, però, più complesso di quello del "mal olandese" di tre decenni fa (allora curato con drastiche riforme interne ed una politica fisco-monetaria "accomodante" ad aumenti dei consumi). L’unione monetaria, infatti, ingabbia la Germania (come gli altri): Berlino non può agire sul cambio che , a livello internazionale, è deprezzato rispetto a quello di un ipotetico D-mark. Con i risultati in materia di export che si toccano con mano.Non c’è da stare allegri. La Germania di oggi ha lo stesso problema di quella di Bismarck : un suo starnuto provoca la polmonite al resto d’Europa. Al tempo stesso, però, non è abbastanza forte da togliere la castagne dal fuoco agli europei in difficoltà.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: