giovedì 11 aprile 2019
Tacitato il dissenso interno, gli appoggi di Pechino e Mosca gli hanno consentito a lungo di non arrendersi neanche davanti alle accuse di crimini contro l'umanità
Omar el-Bashir

Omar el-Bashir - Public Domain

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Il muro di Berlino era ancora al suo posto quando il colonnello Omar el-Bashir sale al potere in Sudan con un golpe incruento il 30 giugno del 1989. Primo capo di Stato nell’esercizio delle sue funzioni a essere ricercato dalla Corte dell’Aja (per crimini contro l’umanità nel Darfur), è riuscito in questi anni a farsi beffe della giustizia internazionale grazie a solidi appoggi non solo nel continente africano, ma soprattutto a Pechino e a Mosca. Settantacinque anni, spesso in pubblico con turbante e abito bianco, Bashir ha esercitato in questi tre decenni un controllo capillare sul territorio, censurando organi di stampa e bandendo gli avversari politici. Ha gestito una crisi interna dopo l’altra, riuscendo al contempo a resistere ai tentativi dell’Occidente di indebolirlo.

Nei primi anni al potere la sua scelta interna più forte è quella di allearsi con Hasan al-Turabi, leader del Fronte islamico nazionale e causa anche di attriti con Washington per i legami con gruppi fondamentalisti come al-Qaeda. In un Paese allora grande otto volte l’Italia, e diviso al suo interno tra un’identità araba e islamica al Nord e un Sud cristiano e animista, Bashir promuove nel 1991 un nuovo codice penale e mette in vigore nel Nord la sharia, la legge coranica. Mentre prosegue la sanguinosa guerra civile con il Sud, che reclama l’indipendenza, il rapporto tra Bashir e Turabi si incrina, tanto che quest’ultimo viene fatto arrestare.

Tra il 2003 e il 2004 esplode il caso del Darfur, la regione occidentale del Paese che vede contrapposta la maggioranza di agricoltori neri alla minoranza di pastori arabi, appoggiata dal governo di Bashir, che sostiene le scorribande sanguinose della tribù nomade-guerriera dei janjaweed, i “diavoli a cavallo”. Trecentomila morti, due milioni di sfollati: i numeri di quello che da più parti viene definito “genocidio” sono impressionanti. Nel 2008 è la Corte penale internazionale a chiedere l’arresto del presidente sudanese per crimini di guerra e contro l’umanità. Gli appoggi importanti all’Onu – con la Cina è solido il rapporto basato sull’export di petrolio verso Pechino – consentono a Bashir di restare sempre in sella. Con il Sud, però, dopo due decenni di guerra è costretto a cedere. Prima un’autonomia di sei anni, poi, nel 2011, la concessione di un referendum che conferma la volontà di secessione delle regioni meridionali del Paese e sancisce quello stesso anno la nascita del Sud Sudan. Bashir sembra vacillare, ma non molla. Fino alle ultime ore, quando la sua stella, dopo settimane di protesta, viene deposta dai militari.

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