sabato 8 settembre 2012
​I medici dicevano che non sarebbe sopravvissuta. Ora la piccola pesa 2,6 chili e si riprende lentamente, anche se è ancora attaccata al respiratore. La mamma: «Mia figlia è una lezione di speranza per il Paese».
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​ «Sorride. È qui seduta fra le mie braccia, bella vispa: questa mattina si è svegliata tardi». È di poche parole Analía Bouter, come la gente del Chaco, nel Nord dell’Argentina. Parla in modo gentile ma secco, non è abituata ai lunghi discorsi. Per questo non si perde in fronzoli. Specie ora che è stordita dall’emozione. «È andata bene», si limita a ripetere. Non trova aggettivi più efficaci per descrivere la prima notte a casa di Luz Milagros, cinque mesi e cinque giorni dopo la sua nascita. O forse si dovrebbe parlare di “prima nascita” perché nella sua giovanissima esistenza, la neonata sembra aver già vissuto almeno tre vite. La prima è durata appena dodici ore: il tempo trascorso dalla bambina nell’obitorio dell’ospedale Perrando di Resistencia. Lì Luz Milagros – che allora si chiamava Lucía Abigail – è venuta al mondo aprile, il 3 aprile, in anticipo di tre mesi. «Impossibile» la sopravvivenza, hanno detto i medici che si sono affrettati a dichiararla morta. «Certo che ci ho creduto. Erano dottori, io sono una povera casalinga. Solo volevo almeno vederla. Conoscerla personalmente prima di dirle addio. Così ho insistito e alla fine ci hanno dato il permesso», racconta ad Avvenire Analía. Che insieme al marito, Fabián Verón, si è recata nella camera mortuaria, ha aperto la cella refrigerata dove stava la bimba, ha sollevato la coperta per guardarla e poi l’ha rialzata. «In quel momento ho sentito un grido, quasi impercettibile. Ho guardato Fabián, credevo di essere impazzita. Ma anche lui aveva sentito...». Con quell’urlo soffocato – l’unico modo, secondo la mitologia latinoamericana, per spaventare e allontanare la “Llorona”, la morte – è cominciata la “seconda vita” della neonata, ribattezzata Luz Milagros, cioè “miracolo di luce” per la sua incredibile vicenda. Un’esistenza dura, un via vai estenuamte tra incubatrici, reparti specializzati e unità di terapie intensiva. Luz Milagros, però, non si è fatta sopraffare dal dolore: con innocente coraggio ha sfidato la morte, che le danzava accanto. Proprio come sua madre che non si è arresa nemmeno davanti alle diagnosi più terribili. «Dopo alcune settimane, i medici di Buenos Aires, dove l’avevamo portata per cure specializzate, mi hanno detto che Luz Milagros aveva subito un danno celebrale irreparabile. Sarebbe rimasta cieca, sorda, muta, non avrebbe potuto camminare. Mi hanno fatto capire che curarla era inutile. Ma io non gli ho dato retta. Se Dio l’aveva fatta sopravvivere in modo tanto incredibile, c’era una ragione...», racconta. In mezzo allo scetticismo degli esperti e la fede dei genitori, Luz Milagros intanto è cresciuta, lentamente. Fino a raggiungere gli attuali 2 chili e 600 grammi, il quadruplo di quanto pesava alla nascita. E le sue condizioni di salute hanno cominciato a stabilizzarsi. Tanto che, ai primi di agosto, è stata di nuovo trasferita da una clinica della capitale all’ospedale Castelán, di nuovo a Resistencia. E da lì, due giorni, ha iniziato la sua “terza vita”, a casa, un’umile abitazione di Fontana, a cinque chilometri dalla capitale dello Stato. Certo, è ancora attaccata al respiratore e deve essere alimentata da una sonda. Un’infermiera la tiene sotto controllo 24 ore al giorno. «Però è viva. E capisce. Mi segue coi suoi occhietti dappertutto. Muove la testa quando le parlo». Per Analía, però, la sua ultimogenita – ha altri quattro figli – non è una bambina “normale”: «Non lo è proprio. Luz Milagros è speciale. E non solo per la sua incredibile storia. La sua presenza sta facendo del bene all’intera comunità. Mio marito è disoccupato, il governo ci aiuta, ma non ce la faremmo comunque. Eppure da quando è nata non ci è mancato niente. Sa perché? Vicini, amici, conoscenti, perfino estranei, si sono inventati una colletta pubblica per aiutarci. Dicono che Luz Milagros è figlia di tutta l’Argentina, perché è una lezione di speranza».
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