venerdì 11 febbraio 2022
Grazie al «Melissa Network» le 29 politiche hanno potuto ritessere la tela del proprio impegno: «Abbiamo lasciato tutto, ma vogliamo continuare a lottare»
Una seduta dell’Afghan Women Parliamentarians Network nei locali che ospitano le donne afghane ad Atene in Grecia

Una seduta dell’Afghan Women Parliamentarians Network nei locali che ospitano le donne afghane ad Atene in Grecia - Ghirardelli

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Fanno il loro ingresso nel salone e l’atmosfera è accogliente, i dolci sulla tavola, un via vai di madri con bambini, disegni alle pareti. Loro, però, sembrano fuori contesto, fuori posto. C’è chi rivela con uno sguardo tutto il peso degli ultimi mesi, e chi invece conserva intatto un portamento imponente e magnetico, istituzionale, che mette soggezione. Sono le parlamentari afghane evacuate da diverse iniziative internazionali ad Atene, dove oggi si trova la loro delegazione più numerosa, 29 delle 69 che sedevano in Parlamento prima della vittoria dei taleban ad agosto.
Le ha riunite il Melissa Network, un’organizzazione greca per il sostegno di rifugiate di varie nazionalità. «Il nostro intento non era solo quello di mettere in salvo donne a rischio, ma anche di provare ad evacuare una massa critica di professioniste in posizioni decisionali rilevanti, che fossero state portatrici di un cambiamento significativo nella loro società», spiega Nadina Christopoulou, cofondatrice dell’organizzazione. «Volevamo prevenire la frammentazione che la diaspora e la migrazione forzata spesso comportano, e aiutarle a riprendere il filo del loro attivismo». Per parlamentari, giudici, giornaliste, attiviste e per le loro famiglie il Melissa Network ha ottenuto dal governo greco 608 permessi d’ingresso. Molte sono arrivate con iniziative promosse da fondazioni, come l’International Bar Association e la Zaka Khan Foundation. Una volta ad Atene, hanno dato vita a una sorta di Parlamento in esilio di sole donne, l’Afghan Women Parliamentarians Network (Awpn). Nessuna di loro resterà in Grecia, la maggior parte andrà in Canada, negli Usa, in Germania. Intanto, però, l’organismo che le riunisce è nato, il legame è stabilito.
Nadia Saleh è giunta ad Atene quattro mesi fa. Era senatrice e consigliera alla presidenza, nel 2002 ha fatto parte dell’Emergency Loya Jirga (“grande assemblea”), nucleo politico del nuovo Afghanistan. «Ero a bordo del secondo volo di evacuazione verso la Grecia», racconta. «È doloroso pensare al momento in cui abbiamo abbandonato il Paese dopo 20 anni di sforzi e impegno. Abbiamo lasciato tutto alle spalle, ma vogliamo continuare a lavorare insieme. Oggi, nel mezzo di una crisi umanitaria di gravi dimensioni, il Paese è in mano a un gruppo che ancora non ha una chiara posizione di governo, non è inclusivo e non riconosce i diritti».
Scuola, lavoro, sicurezza, in Afghanistan il panorama resta confuso, da provincia a provincia sembrano essere in vigore disposizioni diverse: «Anche noi ci domandiamo cosa accada davvero e quali siano le reali intenzioni dei taleban. Pochi giorni fa, ad esempio, a Kandahar e Jalalabad sono state riaperte le università pubbliche, ma non ci è chiaro secondo quali modalità per le donne». Chiediamo alla senatrice cosa pensi dei tentativi occidentali di trovare un equilibrio tra ripresa degli aiuti umanitari e rischio di legittimare il nuovo regime (il 23 e 24 gennaio a Oslo è stata ricevuta una delegazione di taleban): «È positivo che l’Occidente li abbia incontrati e che li spinga a uscire allo scoperto, per capire cosa vogliano davvero. Ma la comunità internazionale non deve riconoscerli come governanti legittimi, e deve premere affinché gli aiuti giungano direttamente alla popolazione».
Ma quali tracce sono rimaste nel Paese del lavoro suo e delle sue colleghe? «Pur nel mezzo della corruzione e della guerra, negli ultimi due decenni molte afghane hanno potuto studiare. Grazie all’istruzione le nuove generazioni troveranno il coraggio di alzare la loro voce». È d’accordo anche la carismatica Homa Ahmadi, parlamentare per tre mandati, dalla lunghissima esperienza politica, sopravvissuta a un attentato con un ordigno esplosivo collocato sotto la sua auto. «Per 20 anni abbiamo aperto scuole in molti distretti, chiedendo al governo di finanziarne sempre di nuove, perché dove manca l’istruzione c’è violenza». Fa parte del Comitato direttivo dell’Afghan Women Parliamentarians Network che, per lei, ha il compito di «lavorare per l’unità e il dialogo in Afghanistan, comprendendo anche i taleban, il cui governo però oggi non deve essere riconosciuto come legittimo. Il popolo afghano ha bisogno di sedersi e parlare, confrontarsi».
Il salone e gli uffici del Melissa Network distano centro metri da Piazza Vittoria, dove, tra piccoli negozi e ristoranti afghani, ogni giorno confluiscono in gran numero richiedenti asilo originari di Kabul, Herat, Mazar, Kandahar. Chiediamo a Homa Ahmadi se conosca la sorte dura di chi riesce ad arrivare in Grecia con i propri mezzi, fra politiche governative sempre più severe e assistenza carente. «Quando al nostro ingresso nel Paese diversi esponenti politici sono venuti ad accoglierci, ho chiesto al ministro per le Migrazioni di vedere i campi per rifugiati. Noi siamo le rappresentanti del popolo, a noi spetta conoscere la realtà. Finora, però, non ci è stata data l’opportunità di entrare».
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