giovedì 14 marzo 2013
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​«Se il carro perdesse le ruote, rimarrebbe tale?», chiese il monaco Nagasena a re Milinda. «Penso proprio di no», rispose il sovrano. A distanza di due anni, lo Stato siriano può ancora ritenersi tale? Un controllo governativo in continuo restringimento; decine di migliaia di disertori dall’esercito, tanto da spingere Assad a richiamare martedì i riservisti; milioni di siriani sfollati o rifugiati in Paesi confinanti; scuole, università e ospedali costretti a interrompere i servizi. Le defezioni hanno toccato anche il corpo giudiziario e la stessa cerchia di Assad. Lo scorso agosto, il premier Riad Hijab è fuggito a sorpresa in Giordania. Prima di lui, il generale della Guardia Repubblicana Manaf Tlass, amico d’infanzia di Bashar, aveva trovato rifugio a Parigi. L’ultima della serie fu l’uscita di scena, a fine novembre, del portavoce del ministero degli Esteri Jihad al-Maqdissi. A ciò si aggiungono gli attentati che hanno colpito il cuore dell’establishment, come quello del luglio scorso che ha eliminato tre tra i maggiori capi militari, tra cui il ministro della Difesa e il cognato di Assad. Attorno al presidente rimane oggi un piccolo nucleo di parenti-consiglieri che comprende il fratello Maher, capo della Quarta divisione blindata, e i cugini Hafez e Rami Makhlouf.Quanto basta per sentire Assad sostenere davanti ai suoi ospiti che il suo è ancora uno Stato, adducendo che il corpo diplomatico è ancora fedele al suo regime «pur avendo subito qualche defezione pagata dall’estero». Sarà. Ma per il saggio Nagasena non basta avere una bandiera innalzata sopra un’ambasciata per definire uno Stato tale.
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