sabato 26 ottobre 2019
Il candidato peronista è il grande favorito alle elezioni di domani con venti punti di stacco sul rivale che si ripresenta: può farcela al primo turno. Rinnovo parziale anche di Camera e Senato
Argentina, Macri paga la crisi e Fernández va all'incasso
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Ricardo compirà quattro anni il prossimo dicembre. Quando è nato, nel 2015, l’Argentina si preparava al grande cambiamento. L’era “Kirchner” – prima Néstor poi la moglie Cristina, per un totale di dodici anni – volgeva inesorabilmente al termine e alla Casa Rosada entrava l’outsider Mauricio Macri. All’epoca, la madre-single di Ricardo, Analia, manteneva se stessa e il bimbo con il doppio impiego di centralinista e segretaria in una ditta di calzature alla periferia di Buenos Aires. Come tanti altri esponenti della classe medio-bassa argentina, anche Analia aveva scelto di voltare le spalle al candidato kirchnerista e rivolto le sue speranza al leader del centro-destra. Attratta, soprattutto, dalla doppia promessa di riattivare l’economia, aprendola al commercio internazionale, e di eliminare la miseria, intorno al 29%. «Pobreza zero», “povertà zero” era il leitmotiv della campagna macrista. Quattro anni dopo, però, non solo questa non è stata azzerata ma, entro la fine dell’anno, schizzerà, come dimostrano i dati dell’Osservatorio per il debito sociale dell’Università cattolica argentina, al 37 per cento. Ora è al 35,4: nella quota sono stati risucchiati anche Analia e Ricardo. La prima ha perso il lavoro, dopo che la fabbrica ha ridotto la produzione per la crisi, e sopravvive grazie al sussidio per le mamme, ereditato dall’era Kirchner. Il piccolo ha la colazione assicurata al “comedor popular”, la mensa popolare, del quartiere, il Bajo Flores. Quest’ultimo ha visto moltiplicare per sei gli ospiti: se resta a galla è solo grazie alla legge per l’emergenza alimentare che, da maggio, ha raddoppiato i contributi statali per i refettori. «Domani, Macri non lo rivoto», taglia corto Analia. È una percezione diffusa. L’attuale presidente, candidato di Juntos por el cambio, paga il conto della recessione in cui si dibatte l’Argentina da almeno diciotto mesi. Il conservatore non si stanca di addossare la responsabilità al «disastro dei conti pubblici» ereditato dal kirchnerismo. Ed, in effetti, la gestione economica di Cristina Kirchner è stata criticata da tanti.

Sull'orlo del baratro

La situazione, però, è drasticamente peggiorata: l’inflazione sfiora il 60%, il debito estero è cresciuto del 79%, la rimozione dei limiti all’esportazione di capitali ha provocato un’emorragia di dollari, tanto da costringere il governo a chiedere un prestito da 57 miliardi al Fondo monetario internazionale (Fmi). L’elettorato, dunque, ha punito il presidente in carica infliggendogli una dura sconfitta alle primarie obbligatorie dell’11 agosto, una sorta di prova generale del voto di domani, quando 34 milioni di persone si recheranno alle urne per scegliere il prossimo presidente fra sei aspiranti, nonché un terzo dei senatori e metà dei deputati. Negli ultimi due mesi e mezzo, nonostante una campagna-maratona chiusa con un bagno di folla nella provincia settentrionale di Córdoba, Macri non è riuscito ad accorciare le distanze dal favorito peronista, Alberto Fernández, da cui lo separano venti punti percentuali, mentre gli altri aspiranti – il centrista Roberto Lavagna, gli estremisti di sinistra e destra, Nicolás del Cano e José Gómez, e l’indipendente José Luis Espert – insieme, non superano l’8 per cento. Dato al 52% nei sondaggi – il 3 in più di quanto ottenuto l’11 agosto –, Fernández potrebbe farcela già al primo turno, per cui è sufficiente il 45 per cento o il 40 con dieci punti di stacco sul secondo classificato. In caso contrario, si andrà al ballottaggio, previsto per il 24 novembre. Il vantaggio del fronte peronista è dovuto, in gran parte, al passo indietro della “candidata annunciata”, l’ex “presidenta” Fernández de Kirchner, auto-relegata a numero due.
Tanto Cristina è una figura polarizzante, all’esterno ma anche all’interno della compagine, quando Fernández è un abile mediatore. Oltre che un kirchnerista critico: fedelissimo di Néstor, ha preso le distanze dall’erede, fatto che gli ha guadagnato il sostegno del cosiddetto peronismo dissidente e di vari indipendenti. Non solo. Fin dal trionfo dell’11 agosto, Fernández si è dedicato a promuovere l’idea di un “patto sociale”, che includa imprenditori, sindacati, lavoratori, movimenti sociali, per uscire dalla crisi. Il giorno dopo le primarie, le borse sono crollate, trascinando il valore della moneta nazionale, il peso, a quota meno 35%. Già da allora, il <+CORSIVO50>Financial Times<+TONDO50> aveva lanciato l’allarme per un Kirchner bis. E, nei giorni scorsi, il <+CORSIVO50>Washington Post<+TONDO50> ha tuonato contro «il ritorno del populismo». Fernández sa che la vera sfida, più che la vittoria, sarà riuscire a governare un Paese a rischio default.
In questo senso, il sostegno internazionale è importante. Messi da parte i toni aggressivi del kirchnerismo, il leader, dunque, si mostra moderato e conciliante. Almeno fino a quando riuscirà a tenere la scomoda Cristina lontana dal balcone della Casa Rosada

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