giovedì 12 gennaio 2017
«Ripartire dalla terra» è l’appello a cominciare «dal basso» per affrontare la povertà. Un grave problema che sul pianeta riguarda 800 milioni di persone
Aree rurali, piccoli interventi. Ricetta per salvare il mondo
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Non si parla di Ogm, né vecchi né nuovi, e non si affronta neppure il tema (spinoso) delle concessioni tariffarie. Il dossier “Ripartire dalla terra” della Caritas applica quel che afferma, cioè come la solidarietà internazionale in campo agricolo debba ripartire dal basso, dalla piccola cooperazione fatta di scuole professionali, nuovi pozzi e magazzini, «piccoli interventi, puntuali ed efficaci», come quelli di cui hanno beneficiato gli agricoltori del Sud-Est di Haiti. (Qui il dossier completo)

Il documento, pubblicato ieri, ha l’approccio apparentemente minimalista di chi si sporca le mani “personalmente” con una povertà che ha assunto le dimensioni- monstrum denunciate dall’Ifad: 800 milioni di persone, tre quarti delle quali si concentrano nelle aree rurali. Il magistero sociale della Chiesa non ha esitazioni nel denunciare questo «vero scandalo»: ieri, la Laborem Exercens invocava «tutela legale per le persona del lavoratore agricolo e per la sua famiglia»; oggi la Laudato si’, tra le tantissime intuizioni, segnala che «l’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme».


L’attenzione della Chiesa nei confronti del Creato non può non concentrarsi sulle condizioni di vita dei suoi custodi, dai quali dipende concretamente la sopravvivenza del genere umano: «Nel 2050 il mondo necessiterà del 60% di cibo in più, mentre la riduzione della povertà – osserva la Caritas – sembra seguire un processo più lento». Il focus del rapporto sono i piccoli agricoltori, da cui viene prodotta tuttora la maggior parte delle derrate alimentari e che tuttavia sono proprietari della terra che coltivano solo in un caso su cinque. Ingiustizie perpetuate ancora oggi con le violenze, com’è nel caso del popolo Garifuna in Honduras, dei Quechua in Amazzonia, dei Kutia in India.

La tesi è che «la tutela dei diritti e lo sviluppo rurale vanno di pari passo» e che il depauperamento violento delle popolazioni rurali sia all’origine degli squilibri demografici di questo periodo storico: senza andare molto lontano, il 34% della popolazione che vive di agricoltura e di allevamento tra Medioriente, Nordafrica ed Europa dell’Est si troveranno a fare i conti nei prossimi 35 anni con un incremento della domanda di cibo e una parallela riduzione delle fonti idriche ed energetiche, che indurranno da un lato uno spostamento di grandi masse e dall’altro una concentrazione dei residenti nelle aree urbane, indebolendo ulteriormente il tessuto produttivo dell’agricoltura.


Il rapporto non si sofferma tanto sui trend globali, dalla volatilità dei mercati al fallimento del multilateralismo, ma insiste sui segnali dello sgretolamento in atto, come «l’incremento di episodi di espropri forzati, violenze e omicidi» che preludono all’abbandono delle campagne; inoltre, elenca alcune politiche positive che si sviluppano a livello regionale. Non va dimenticato che la povertà delle zone rurali è un problema anche per l’Europa. I gap non sono diversi da quelli che si riscontrano in altre aree del globo: scarsità di infrastrutture e basso livello di istruzione sembrano essere le variabili di maggiore impatto economico e sociale.


In teoria, per riallineare le diverse regioni tra loro, la Commissione Europea dispone delle ingenti somme dei piani di Sviluppo rurale, gestite in parte da Bruxelles e in parte dagli Stati membri; in realtà, il cosiddetto “secondo pilastro” della Politica agricola comune viene utilizzato come integrazione al reddito delle aziende agricole e spesso le “misure” dei piani di sviluppo rurale non raggiungono affatto l’obiettivo per cui nascono. Non di rado, inoltre, sono proprio le regioni più deboli a non drenare tutti i fondi cui avrebbero diritto.


Complessivamente, secondo il rapporto, «l’attenzione della comunità internazionale nei riguardi dello sviluppo rurale vede una certa ripresa dopo un periodo di crisi che durava ormai dagli anni Novanta», per quanto si debba ancora prendere consapevolezza della necessità di un approccio realmente multisettoriale e multidisciplinare.


Temi di importanza decisiva per cambiare le cose, come la necessità di una maggiore organizzazione all’interno del mondo rurale, il ruolo centrale degli imprenditori locali e quello delle istituzioni pubbliche, della ricerca e del microcredito, sono meno acquisiti di quel che si pensi. La strategia migliore, in ogni caso, resta quella di sempre: «Ascoltare la voce delle società rurali, migliorare il coordinamento degli aiuti, incrementare politiche e interventi inclusivi per le zone isolate, attraverso l’impegno congiunto di enti locali, società civile, istituzioni, organizzazioni internazionali e Ong, è un modo efficiente ed efficace per avviare processi di cambiamento sostenibili» conclude il rapporto.

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