sabato 2 gennaio 2021
Cinquantuno diplomatici italiani hanno scritto all'ambasciatore Usa presso la Santa Sede: «Per il Thanksgiving Day ha graziato un tacchino ma nessuno dei reclusi nel braccio della morte»
Le proteste contro la pena di morte davanti al penitenziario di Terre Haute in Indiana

Le proteste contro la pena di morte davanti al penitenziario di Terre Haute in Indiana - Ansa

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Sono 51 i diplomatici italiani che hanno inviato all’ambasciatore americano presso la S. Sede, la cattolica Càllista Gingrich, una petizione affinché intervenga presso il suo Presidente per fermare in extremis le esecuzioni di tre condannati a morte

Il presidente Trump, se non può risuscitare le migliaia di vittime del virus provocate dal suo ostinato negazionismo, farebbe ancora a tempo a risuscitare almeno gli ultimi tre «morti che camminano­» (Lisa Montgomery, Corey Johnson e Dustin Higgs) in attesa di esser giustiziati nel penitenziario federale in Indiana prima del 20 gennaio. Lui solo ha la potestà di fermare l'iniezione letale. E dovrebbe farlo per due ragioni: primo, perché è norma consolidata che i presidenti uscenti deferiscano al successore ogni decisione grave (spegnere vite umane non lo è?); secondo, la pandemia. Ogni esecuzione costringe decine di persone ad affollare il carcere dell’Indiana, in locali senza finestre dove già si sono registrati tre decessi e infettate centinaia di persone, tra cui i tre «morituri». Non è assurdo che per mettere a morte un condannato la giustizia provochi altre morti?

E’ stato Trump a interrompere, a luglio, la moratoria che bloccava da un ventennio le esecuzioni per reati federali. Da luglio ne ha fatte eseguire dieci, quasi tutte di neri cresciuti in famiglie sbandate. Un record. Prendiamo il caso di Brandon Bernard. Pur con un’infanzia devastata da un padre violento e una madre malata, era un ragazzo studioso e religioso; finché un cugino lo convinse a rubare nelle case per raggranellare qualche dollaro. Si formò una piccola banda. Bernard aveva compiuto 18 anni quando partecipò da gregario a un furto finito con un duplice omicidio; non era stato lui a sparare, ma era stato lui a dar fuoco all’auto con i cadaveri. In carcere si dimostrò pentito e servizievole, ma la giuria lo condannò a morte perché al momento del delitto era maggiorenne (da poco), a differenza di altri della banda ancora minorenni.

Il processo fu sbrigativo e la giuria anche. Solo di recente un centinaio di esperti ha messo in luce le falle del sistema e cinque dei nove giurati hanno chiesto clemenza. Uno di loro ha detto: «Se all’epoca avessimo avuto le informazioni che abbiamo ora, avremmo scelto un verdetto diverso. Scongiuro il Presidente di commutare la pena». E un magistrato ha ammesso: «Ho letto per intero gli atti del processo e credo ci sia stato, moralmente e legalmente, un errore giudiziario». Alle richieste di clemenza il Presidente ha risposto facendo eseguire la sentenza il 10 dicembre, giorno dedicato dall’Onu ai diritti umani.

Poco dopo, dalla Casa Bianca è partita una raffica di “perdoni presidenziali” a beneficio di parenti e assistenti repubblicani di Trump, condannati (o condannabili) per gravi reati commessi per suo conto. Oltre a loro Trump ha graziato quattro mercenari della Blackwater, la “ditta” paramilitare del fratello del ministro dell’Educazione, Betsy De Vos. Erano in carcere per aver trucidato nel 2007, su una piazza di Baghdad, 17 iracheni inermi e averne ferito altri 20, donne e bambini inclusi. La Costituzione americana (art. II, sez. 2) concede al Presidente la potestà illimitata di graziare o commutare pene a chi si sia macchiato di reati federali. Né il Congresso né il ministero di Giustizia possono metterci bocca. Vero è che anche i Papi del passato avevano un potere di grazia illimitato; ma è curioso che i Padri costituenti – Jefferson, Hamilton, Franklin, tutti fieri antipapisti – non si fossero accorti della incongruenza.

Finora Trump era troppo affaccendato con i suoi ricorsi post-elettorali. Ora che ha più tempo, si avvarrà delle sue prerogative per salvare gli ultimi tre “morituri”? Potrebbe, vista la generosità con cui ha graziato loschi personaggi incriminati per colpa sua. In pratica salverebbe loro la vita, perché Joe Biden (un tempo favorevole alla pena capitale) da cattolico praticante ha finito per convertirsi e ha preannunciato che riesumerà subito la moratoria. Anzi, si sforzerà di convincere i rimanenti Stati “forcaioli” ad abolire la pena capitale, perché uccidere in nome dello Stato abbassa lo Stato al livello degli assassini.

L’esecuzione dei tre “morituri” è fissata per il 12, il 14 e il 15 gennaio – giusto alla vigilia dell’insediamento di Biden – e questo puzza di sadismo. La memoria va ai soldati caduti inutilmente nella Grande Guerra proprio all’ultima ora: uno per tutti il miglior poeta della gioventù inglese, Wilfred Owen, ucciso il 4 novembre 1918.

Chi tra i primi si è rivoltato di fronte a tale efferatezza è stato un gruppo di 51 diplomatici italiani che, ai primi di dicembre, ha inviato all’influente ambasciatore americano presso la S. Sede, la cattolica Càllista Gingrich, un’accorata petizione affinché intervenga presso il suo Presidente per fermare le esecuzioni. Altri appelli sono seguiti, finora senza successo.

Lo scorso giugno Trump – circondato da agenti in uniforme antisommossa – si era fatto riprendere dalle tv con una Bibbia voluminosa in mano davanti alla chiesa che fronteggia la Casa Bianca. Se invece di limitarsi a sbandierare il sacro libro, avesse avuto la pazienza di sfogliarlo, ci avrebbe trovato all’inizio il grido di Yahveh a Caino («Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida dalla terra fino a Me!») e alla fine anche queste parole: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia».

Un tempo si usava graziare un condannato a morte nelle grandi occasioni festive. In America, invece, accade che per il Thanksgiving Day si conceda la grazia a un tacchino piuttosto che a un essere umano. Così ha fatto Trump anche quest’anno: ha graziato un tacchino, ma nessuno dei reclusi che agonizzavano nel braccio della morte di un penitenziario sperduto nell’Indiana. Eppure farebbe ancora a tempo a salvare in extremis gli ultimi tre, sperando di uscire dalla Casa Bianca liberato dal marchio di Caino.

I cinquantuno diplomatici firmatari

Francesco Aloisi di Larderel

Antonio Armellini

Francesco Bascone

Anna Blefari

Mario Bova

Alberto Bradanini

Bruno Cabras

Rocco Cangelosi

Giuseppe Cassini

Gabriele Checchia

Piero De Masi

Staffan de Mistura

Patrizio Fondi

Guglielmo Giordano

Maurizio Melani

Elio Menzione

Nicola Minasi

Alessandro Minuto-Rizzo

Laura Mirachian

Enrico Nardi

Roberto Natali

Francesco Olivieri

Mario Brando Pensa

Vincenzo Petrone

Michelangelo Pipan

Cristina Ravaglia

Giacomo Sanfelice

Mario Sica

Paolo Trabalza

Michele Valensise

Milo Barbarani

Jolanda Brunetti

Giuseppe Cassini

Giuseppe Cipolloni

Michele Cosentino

Enrico De Maio

Roberto Di Leo

Paolo Foresti

Giovanni Germano

Alfredo Matacotta

Roberto Mazzotta

Luigi Mercolini

Andrea Mochi Onory

Ludovico Ortona

Giorgio Radicati

Felice Scauso

Alberto Schepisi

Massimo Spinetti

Antonio Tarelli

Vittorio Tedeschi

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