domenica 7 ottobre 2012
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La porta di casa è sempre a­perta. Non è solo la metafora con cui don Antonio Polo, 73 anni, missionario salesiano vene­ziano, ha voluto descrivere, in un li­bro di memorie, i suoi 41 anni a Sa­linas. È una semplice constatazio­ne. Al tavolo di cucina, accanto al sacerdote appena guarito da una brutta influenza, c’è un gruppo di ragazzi che organizza l’attività del gruppo parrocchiale. Poi entra Juan: trascina un enorme mazzo di coriandolo. «È straordinario contro la febbre», dice al religioso. Nel frat­tempo, sono arrivati i bimbi del do­poscuola, guidati da una giovane volontaria. «Ora prepariamo la me­renda », esclama la ragazza. Don Antonio è abituato a questa allegra confusione. «Non ci faccio più ca­so. Sono sempre state un oratorio salesiano queste mura…», dice. Il religioso, dalla folta barba bianca e gli occhi vispi, le ha costruite con le sue mani appena arrivato nella co­munità. Che allora contava meno di 400 abitanti. Come si è ritrovato a Salinas? Studiavo psicologia a Roma. Nel 1970 arrivò monsignor Candido Ra­da: cercava aiuto per il Fepp. Mi mancava un semestre per la laurea e sognavo di fare il missionario. Quando il mio superiore mi pro­pose di partire, mi dissi: «Perché no? Tanto è solo per quattro mesi». So­no ancora qui: sono il primo, unico e miglior parroco di Salinas (ride). Che incarico le affidò il vescovo di Guaranda? Mandò Bepi Tonello e me a Salinas per costruire una piccola casa comu­nale. All’epoca, era il 1971, la gente non a­veva alcun luogo di riunione. Le decisio­ni venivano prese nella residenza dei padroni: gli indigeni stavano fuori, ascol­tavano e prendeva­no atto. Monsignor Rada ci incaricò di creare per loro uno spazio di libertà, in cui potes­sero ritrovarsi per decidere insie­me. Voleva che diventassero artefi­ci del loro destino. Riusciste a completare il lavoro nei quattro mesi stabiliti. Perché siete rimasti, Bepi altri 5 anni prima di trasferirsi a Quito a dirigere il Fepp, e lei tuttora? Fu la gente a chiedercelo. Capirono che il nostro mes­saggio di fede vis­suta nella pratica poteva essere la via verso la costruzio­ne di un’altra Sali­nas. In realtà, ab­biamo anche im­parato sul campo come armonizzare economia e giusti­zia. Abbiamo com­messo errori, li abbiamo corretti, ne abbiamo fatti di nuovi. Per fortuna avevamo una guida preziosa: mon­signor Rada. Fu lui a spronarci af­finché costituissimo la cassa rura­le. E fu sempre lui a capire che, ol­tre al credito, dovevamo offrire for­mazione a chi voleva fare impre­sa. Qual è l’insegnamento più im­portante che le ha lasciato mon­signor Rada? Diceva sempre: il Regno di Dio va annunciato e celebrato ma anche costruito. Ogni giorno, con intel­ligenza, sudore e amore. Quando Bepi edio andavamo a Guaranda, dopo aver percorso a piedi centi­naia di chilometri per visitare le comunità, per prima cosa ci pre­parava il bagno. Poi ci mandava al cinema. «Per lavare corpo e men­te », diceva. Lui era così: un uomo pratico, terribilmente umile, straordinariamente grande. Lucia Capuzzi
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