lunedì 30 maggio 2022
Nel villaggio di 2mila abitanti, a una settantina di chilometri da Kiev, sono state distrutte 140 case, altre 527 hanno subito gravi danni Finora sono state contate 45 vittime dell’occupazione
Andriyuvka, cuore di povertà e orrore rinasce dalle macerie con 50 ragazzi
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Alexander indica con una punta di orgoglio le lamiere grigie di nuovo al loro posto. «L’abbiamo fatto Viktor ed io». Viktor, il vicino, annuisce. Prima del 7 marzo, una staccionata di legno divideva i terreni su cui sorgevano le rispettive case. Strutture ampie ma modeste: blocchi di mattoni non intonacati e, per tetto, lamiere spioventi. «Poi c’è stata la bomba», raccontano.

Un ordigno ha sbriciolato la recinzione e il capanno per gli attrezzi. I vetri delle abitazioni sono andati in frantumi insieme a buona parte del piano superiore. Le ampie crepe sui muri fanno intuire che il danno potrebbe essere anche maggiore. Alexander e Viktor, però, non ci badano. «Almeno sono rimaste in piedi». Non in tanti ad Andriyuvka, una settantina di chilometri a nord-ovest di Kiev, possono dire altrettanto. Ben 170 case sono state rase al suolo e 527 sono distrutte in parte nel minuscolo villaggio dove, prima della guerra, vivevano in duemila. Contadini umili: nell’oblast della capitale la povertà cresce man mano che ci si avvicina alla frontiera con la Bielorussia.

E Andriyuvka non è lontana dal confine, tanto da venire evacuata per un periodo nel 1990 a causa della contaminazione prodotta dal disastro di Chernobyl di quattro anni prima. Una tragedia ancora maggiore, ora, si è abbattuta sull’agglomerato. «I russi. O meglio i “kadirovcy”, gli uomini di Kadyrov, così chiamiamo i ceceni traditori che combattono al fianco di Putin. Le azioni più feroci qui le hanno fatte loro », dice Alexander, ex trasportatore agricolo. «Ormai non c’è più niente da trasportare», sottolinea. Non occorre aggiungere nient’altro. La distesa di campi incolti sulla strada per raggiungere il villaggio sono la spiegazione più eloquente. Troppe mine e ordigni inesplosi nascosti nel terreno.

E le braccia per lavorarli scarseggiano. Chi ha potuto è fuggito. Gli ottocento superstiti sono impegnati nella riparazione delle case. A differenza di Irpin o Borodyanka, non ci sono strutture provvisorie per accogliergli. Dei container dalla Polonia, finora, non c’è traccia. E, così, si arrangiano da soli. Ad aiutarli una squadra di una cinquantina di volontari messa insieme dal Centro di San Martin de Porres di Fastiv, cittadina- satellite di Kiev. Di giorno, la gran parte dei 45mila abitanti si reca nella capitale a lavorare o a cercare qualche impiego saltuario. La notte tornano a Fastiv perché i costi delle abitazioni sono più abbordabili. «I bambini restano soli, abbandonati per strada – spiega padre Pavlo Kunicki –. Proprio per loro, noi domenicani abbiamo costituito, nel 2005, il centro». Le crisi politiche degli ultimi anni, però, hanno costretto la struttura ad “adattarsi”. Con il conflitto in Donbass, tra i 5 e i diecimila profughi si sono riversati nella zona di Fastiv.

I domenicani sono diventati un riferimento per chiunque avesse necessità di viveri, medicine, sostegno psicologico e assistenza medica. Dal 24 febbraio, nella sola cittadina sono arrivati altri 10mila rifugiati e il Centro ha dovuto incrementare ulteriormente le attività. Il gruppo di volontari si è ampliato fino a diventare una vera e propria “brigata”. «Distribuiamo 2mila pacchi cibo in sede e altre 7mila li portiamo nei villaggi più remoti, dove pochi vanno. Poi diamo abiti, attrezzi e altro materiale per ricostruire le case», afferma Cristina Makar, 22 anni, che ha lasciato la capitale insieme al fidanzato per dare una mano.

Nella brigata, la gran parte sono giovani della provincia ma ci sono anche ma persone del Donbass e della Polonia. Oxana Krasnikova è fuggita da Bahmut, vicino a Lugantsk, alla fine di febbraio, insieme al figlio Eugenii, di 8 anni. Approdata a Fastiv e ospitata dai domenicani, ha deciso di aiutare altri colpiti. «Faccio un po’ di tutto: confeziono cibo, pulisco, cucino». Denis Lishenko, 23 anni, di Fastiv, invece, voleva arruolarsi. Un problema fisico, però, l’ha costretto a desistere. «Alla fine sono più utile qui», dice il giovane, fattorino prima del conflitto, impegnato nel reperimento e nella distribuzione di materiali edili. È stato proprio lui a consegnare le lamiere ad Alexander e Viktor e a offrire loro supporto nel piazzarle.

Denis ha contribuito anche a risistemare la casa di Vitalij Cirkasav, braccio destro del sindaco, utilizzata come base dalle truppe di Mosca. «Quando sono andati via, il 31 marzo, e sono potuto rientrare, vi ho trovato dentro la testa di un soldato ucraino», afferma, con voce ferma. Dall’inizio dell’occupazione, il 28 febbraio, fino al ritiro russo, la moglie è stata ostaggio dei militari. «Hanno finto di fucilarla più volte, per estorcerle informazioni. Volevano capire dove mi nascondevo. Sapevano che ero nella difesa territoriale». La casa di Vitalij è di fronte alla scuola che, secondo i residenti, è stata impiegata come centro di tortura. «Mia moglie vi ha visto portare in tanti: anche donne e bambini.

Molti non sono più usciti», aggiunge mentre mostra sul telefono un video dell’irruzione della colonna di blindati di Mosca nel villaggio. «L’ha fatto un mio amico. I russi glielo hanno trovato e gli hanno sparato. È morto per un filmato ». Impossibile, nel pieno dell’emergenza, avere un bilancio esatto delle vittime. Le prime stime parlano di 45 uccisi. «Sa quanti di loro erano nella difesa territoriale? Nove. Il resto non c’entrava nulla. Per loro, però, eravamo tutti “nazisti”. Così dicevano: “Tanto siete nazisti”». La cifra reale potrebbe essere più alta. Dalle testimonianze degli abitanti, quando gli ucraini hanno ripreso il controllo del territorio, per strada c’erano venti cadaveri. «Erano rimasti là per settimane, nessuno aveva potuto seppellirli ». Altri quaranta fra i catturati dalle truppe del Cremlino sono scomparsi. «Solo uno è tornato.

L’hanno portato in Russia e poi scambiato in Crimea con uno dei loro militari». Vitalij non si stanca di ripetere i dettagli di quelle settimane d’orrore. È convinto che solo la memoria consentirà di ottenere, alla fine, giustizia. Per questo, raccoglie prove, racconti, inclusi elementi apparentemente insignificanti. «Un vicino mi ha dato questo telefono. I russi gliel’avevano confiscato e, poi, l’avevano perso. Dentro ci sono le foto che si erano fatti, molte in casa mia. Abbiamo, dunque, le facce dei colpevoli. Ora non possiamo farci niente. Ma verrà il tempo in cui riusciremo a farli processare. Devono riconoscere quello che hanno fatto».

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