giovedì 15 giugno 2023
Le operazioni sul terreno procedono a ritmo ridotto, gli obiettivi per entrambi i fronti appaiono lontani: tutti presupposti per l'ennesimo stallo
Ciò che resta di un magazzino di Odessa colpito da un missile russo e distrutto dalle fiamme

Ciò che resta di un magazzino di Odessa colpito da un missile russo e distrutto dalle fiamme - Ansa

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Siamo davvero di fronte a una controffensiva in grande stile? Dopo nove giorni di combattimenti, verrebbe da dire di no. Lo sforzo ucraino è per ora limitato. Sia chiaro: Kiev ha di nuovo l’iniziativa. Conduce le danze, ma per volume di forze impegnato e unità effettivamente al fronte siamo davanti a tentativi timidi. Forse studia ancora il nemico, sferrando attacchi parcellari in alcuni settori per prenderlo di soppiatto altrove, nelle aree più sguarnite e in un secondo momento. Occorre prudenza, ma i dati dei primi giorni sorprendono: la prima linea difensiva russa non è crollata. L’Armata Rossa ha ceduto solo alcuni villaggi. Resiste, combattendo alla sovietica: arretra dalle prime posizioni, per colpire il terreno ceduto con l’artiglieria, sperando di riprendere il perduto con contrattacchi successivi. Funzionerà?
I comandi ucraini sembrano fiduciosi. Hanno tenuto in riserva le unità migliori: 8 brigate meccanizzate e una interamente blindata, 54mila uomini in tutto che potrebbero pesare. Ma è meglio evitare facili trionfalismi. Non vedremo grandi cavalcate di riconquista: il generale americano Milley l’ha detto chiaro e tondo: oggi è impossibile concentrare forze per azioni in massa, in unico punto. Nonostante Kiev abbia silenziato le informazioni, i video che circolano mostrano attacchi prudenti, condotti con piccoli gruppi: massimo una-due compagnie di 100 soldati o battaglioni di non più di 400 uomini, che devono mantenere una mobilità estrema per non essere distrutti anzitempo. Troppo fitto è lo sbarramento di fuoco russo: una diga erta con artiglierie, droni killer, missili anticarro, tank per il tiro indiretto, campi minati, elicotteri e jet. I russi stanno difendendo bene. Nei primi 18 mesi di guerra non c’erano riusciti. Adesso mostrano un coordinamento inedito. Daranno filo da torcere agli attaccanti, costringendoli a sforzi estremi. Il prezzo pagato dai belligeranti è alto. I reportage descrivono attacchi ucraini dispendiosi. Non è una buona notizia. Imperando la censura, non ci sono certezze. Soprattutto i quadri esperti, agguerriti e ben addestrati si stanno assottigliando, proprio fra le unità di mischia e le fanterie meccanizzate.
Rimediarvi è impossibile. Richiede enormità di tempo e protezione delle truppe al fronte. Purtroppo mancano difese aeree a corto raggio, ombrello dei fanti e dei blindati. Buona parte è costretta nei centri urbani per schermirli dai bombardamenti russi. È probabile che l’esercito ucraino riuscirà a conquistare la prima linea difensiva russa, che non è un continuum solidissimo, ma una posizione di punti d’appoggio, bastioni nei villaggi, bunker e postazioni di tiro, intervallati da campi minati. I russi vi stanno resistendo il più possibile, per consumare il massimo delle risorse nemiche e farle arrivare esauste alla seconda linea di difesa, venti km più indietro: una fascia tampone che favorisce maggiormente i combattimenti ritardatori e si presta al minamento. Più indietro ancora c’è un terzo vallo difensivo, con l’artiglieria a lungo raggio e le riserve strategiche. È difficile capire se Kiev abbia accelerato troppo i piani di riconquista, per anticipare il vertice Nato di Vilnius e condizionarlo con qualche vittoria. Jens Stoltenberg sembra farlo capire fra le righe: «Una controffensiva ucraina vittoriosa porterà Putin a sedersi al tavolo dei negoziati. Più Kiev guadagnerà terreno, più è probabile che il presidente russo capisca la necessità di una pace giusta e durevole». Solo il tempo risolverà il dilemma, ma se l’andazzo è questo, la strada per Melitopol, Mariupol e la Crimea è in salita. Nove giorni di controffensiva hanno permesso di liberare soltanto 90 chilometri quadratri: i russi ne occupano ancora 18mila. Arrivare sulle sponde del Mare d’Azov sarebbe per Zelensky un successo inaspettato, anche perché Mosca ha appena alzato le barriere. Con un decreto presidenziale, ha emanato la legge che qualifica il bacino come «un lago interno russo», annesso alla Federazione anche de jure, come avvenuto mesi fa con il Donbass e i due oblast meridionali ucraini. Non sarebbe ora di riconoscere l’impellenza di un negozialo e mostrarsi tutti propensi a concessioni? La missione di pace del cardinale Matteo Zuppi, incaricato da papa Francesco, ha rilanciato le speranze di chi ripudia la guerra e respinge le sue immani brutalità. Il cardinale è pronto ad andare anche a Mosca, per tessere le fila del dialogo. Che sia la volta buona per far tacere le armi, o almeno incominciare a parlarne?

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