L'incubo nucleare e il dietrofront davanti allo stallo
giovedì 29 settembre 2022

La diplomazia ha un suo linguaggio, con due parole d’ordine: reciprocità e progressività. Prima di consegnare «nelle mani degli ambasciatori» la dichiarazione di guerra si comincia con una nota di «disappunto», passando poi progressivamente ai livelli superiori dello scontro diplomatico. Nella crisi ucraina si scalano invece i gradini a due a due. Il segretario di Stato americano Antony Blinken, prima che il suo dipartimento annunciasse l’invio di un altro miliardo e cento milioni di armamenti all’Ucraina del presidente Volodymyr Zelensky, è stato chiaro sulla reazione ai «referendum beffa»: «Dal momento che non vi sono assolutamente cambiamenti nei territori che sono per essere annessi alla Russia, per quanto riguarda noi, gli ucraini continueranno a usare le armi fornite da noi e a fare quello che devono fare per riprendere la terra che gli è stata tolta e noi continueremo a sostenere questo sforzo».

Tradotto significa: colpiremo il Donbass senza temere la reazione di Mosca che lo considererà, dopo l’annessione, territorio russo aggredito. Quel territorio che Vladimir Putin ha ribadito più volte che difenderà con «ogni mezzo» comprese le armi nuclerari giurando che «questo non è un bluff». Ecco il punto è proprio questo: dove sta la reciprocità o la progressività? Puntare decisi all’«all-in», senza escludere più alcun colpo, evocando scenari terrificanti non dà possibilità di ritorno. E proprio il timore che il punto di non ritorno sia già stato superato è forte. Gli Usa mostrano il petto gonfio, la Polonia si mette in fila alle loro spalle, l’Europa (intesa come Unione) sta a guardare e Putin si sente forse come Hitler rinchiuso nel bunker della cancelleria a fine aprile del 1945: non ha vie d’uscita, sia dal fronte interno che da quello internazionale che ha innescato con l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio scorso. Lo zar sa che indietro non può tornare, il fronte Occidentale non vuole (ma forse non può) più recedere e spese le parole più pesanti, le minacce più devastanti, il passo verso la necessità di metterle in pratica si fa drammaticamente breve. Questo preoccupa tantissimo noi comuni mortali e spettatori di un teatro dell’assurdo, la «follia della guerra», di questa guerra vista bene e denunciata sin dal principio da papa Francesco.

Tutti sanno di non poter vincere, Zelensky e l’Occidente che lo sostiene, così come Putin e i fedelissimi che gli sono rimasti. La vittoria e la sconfitta sono, per tornare al discorso iniziale, l’opposto di una saggia proporzionalità . Ma è proprio tra quei due estremi apodittici – vittoria e sconfitta – che va trovata la via d’uscita, ricorrendo a ciò che resta della diplomazia di pace, e della capacità di composizione delle istituzioni sovranazionali a cominciare dall’Onu. Tra vittoria e sconfitta c’è una terza via, che si chiama ammissione dell’impossibilità di vittoria. La partita ucraina può forse trovare l’inizio di una soluzione in una “patta”, che non veda cioè sconfitti e neanche vincitori nella reciproca ammissione dello stallo che viviamo e dello spettro della Bomba e delle sue conseguenze. Una possibilità che sta diventando, giorno dopo giorno, probabilità e che bisogna allontanare dal cuore d’Europa e dal mondo.​

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