Putin e Xi spingono la Guerra fredda. Poi si difendono a vicenda all'Onu
mercoledì 14 aprile 2021

Schiena a schiena, due membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu da mesi fanno fronte comune proteggendosi a vicenda. L’avversario da cui si difendono attaccando è la Casa Bianca, il teatro delle operazioni spazia dal Mar Cinese meridionale al Mar Nero, dal Mar Glaciale Artico al Donbass, da Taiwan al Mare di Azov. Protagoniste di un’escalation per il momento ancora senza atti di ostilità vera e propria, Mosca e Pechino hanno inaugurato quella che potremmo senza sforzo chiamare «Guerra fredda atto secondo», anche se non è una novità assoluta, visto che le radici di un confronto che si fa ogni giorno più ruvido sono ormai lontane. A cominciare dalla Russia di Vladimir Putin. È dall’epoca dell’incorporazione della Crimea nel 2014 che si è riaccesa la tensione fra Mosca e la Nato. Chi non ricorda i famigerati «omini verdi», i contractor della Wagner che fecero una delle prime apparizioni nella penisola che Kruscev aveva sventatamente regalato nel 1956 all’Ucraina? Da allora fra Kiev e Mosca c’è stato un conflitto permanente, culminato con la creazione delle due repubbliche separatiste del Donbass e di una guerra definita a bassa intensità che tuttavia in sette anni ha superato le quattordicimila vittime. «Condanniamo l’aggressione della Russia alla sovranità e integrità del territorio di Ucraina», proclamò a quell’epoca il vicepresidente americano Joe Biden. Lo stesso che ora marca il terreno con inaspettata fermezza, ligio alla nuova dottrina del Dipartimento di Stato che consiste nel cercare sempre il dialogo ma nel non piegarsi mai.

Gli appetiti russi e cinesi - quelli antichi come quelli moderni - si somigliano. Pechino fa sapere che su Taiwan non transige: «Non c’è spazio per alcun compromesso, Taiwan fa parte del territorio nazionale». Lo diceva anche Deng Xiaoping a Ronald Reagan nei primi anni Ottanta, e periodicamente il falò dell’irredentismo della Città Proibita si riattizza: in palio c’è il controllo del Mar Cinese Meridionale e in prospettiva quello dello stretto di Malacca, dal quale passa gran parte delle merci cinesi destinate all’Europa. Ma dopo Sebastopoli e Yalta – i due bastioni che hanno restituito alla Russia le grandi basi navali del Mar Nero – Putin punta ora su Mariupol, città portuale ucraina, stretta nella morsa del Mare di Azov, a un tiro di schioppo da Rostov sul Don in Russia e l’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk. Un ghiotto bottino per Mosca (aggiungere quel tassello al risiko putiniano sarebbe un toccasana per la sua periclitante popolarità) e insieme un colpo al cuore dell’economia marittima ucraina, già orfana della Crimea.

E per non lasciar nulla al caso, la partita a poker del Cremlino si avvale ora di un sostanzioso incremento di truppe lungo i sempre agitati confini dell’ex Cortina di Ferro, come di quelli caucasici e ucraini: ecco dunque truppe scelte aviotrasportate a ridosso dell’Estonia, battaglioni tattici tra Crimea e Ucraina, nuovi invii di istruttori e tecnici nel Donbass, vistosi movimenti di missili S-400 nel Caucaso (il discusso sistema di difesa adottato – in spregio ai protocolli Nato – anche da Erdogan in Turchia), passerelle di sommergibili nel Mar Nero a poca distanza dalle manovre dell’Alleanza Atlantica di fronte alle acque rumene.
È neo-guerra fredda di secondo grado, d’accordo, ma lo scopo vero qual è? Il precedente georgiano del 2008 insegna: Putin accende la tensione nella zona con la speranza di poter inviare truppe in funzione di peace-keeping nel Donbass e magari nella stessa Mariupol. Un po’ com’è accaduto recentemente nel Nagorno-Karabakh legittimando la presenza russa.

Il modo più sicuro per cadere nella trappola di Putin è quello di invocare l’adesione alla Nato da parte di Kiev. Non a caso, ai piani alti dell’Alleanza si nicchia. Pilatesca in tal senso la precisazione del segretario generale Stoltenberg: «Richiedere l’adesione è un diritto sovrano di ogni nazione come l’Ucraina, ma i trenta alleati hanno a loro volta il diritto di decidere quando verrà offerta l’adesione». Traduzione: la Nato sostiene e garantisce l’integrità territoriale dell’Ucraina, ma non è scontato che Kiev entri proprio ora a farne parte. Cosa che Mosca sa benissimo, ma la pressione sui confini è anche un test per saggiare le intenzioni di Joe Biden e calcolare fino a che punto è disposto a spingersi per proteggere i suoi alleati. A Vladimir Putin ha dato recentemente dell’«assassino»; a Xi Jinping ha detto chiaro e tondo: «Non sa cos’è la democrazia». Una cosa – per ora – è certa: un conflitto vero e proprio non lo vuole nessuno. Non per nulla è Guerra fredda, se pure di secondo livello.

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