giovedì 21 aprile 2022
L'esercito russo è in grande difficoltà, anche per le tecnologie bloccate dall'Occidente, e gli ucraini non sarebbero in grado di usare gli aerei chiesti. Il rischio è solo l'estensione del conflitto
Soldati ucraini

Soldati ucraini - Reuters

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Reclama armi, Zelensky: «Se avessimo tutti i sistemi di cui abbiamo bisogno, avremmo già posto fine a questa guerra – dice –. Non è giusto che l’Ucraina sia ancora costretta a chiedere ciò che i suoi partner hanno immagazzinato per anni».

Alza sempre l’asticella, il presidente. Ha una lunga lista di desideri: vorrebbe più piattaforme, e più sofisticate di quanto finora gli sia stato concesso. È un grido disperato che si leva da un Paese e da una forza armata che hanno subìto enormi perdite, nonostante la censura le abbia taciute.

Se è vero che sono stati concessi a Kiev alcuni cacciabombardieri, si tratta di modelli superati. Ma è quanto i piloti ucraini sanno usare nell’immediato. Una decina di MiG-29 sarebbero arrivati nei giorni scorsi dalla Slovacchia. Grazie agli innesti potrà Kiev rovesciare le sorti della guerra? La risposta è ovvia: no. Per quanto finora poco brillante, l’aviazione russa allinea più di 700 caccia. L’Ucraina ne ha appena una ventina. Ma non può crescere nel breve periodo.

I Paesi che dispongono di jet noti ai suoi piloti sono pochissimi: Polonia, Bulgaria, Romania e Slovacchia. E gli arsenali sono risicati. Cedere tutti i velivoli avrebbe un costo politico enorme, alimenterebbe inutilmente il conflitto e non ne rovescerebbe gli esiti.

Perfino gli 11 elicotteri Mi-17 promessi da Washington hanno già alzato il livello dello scontro. Il ministero degli Esteri, a Mosca, ha tuonato: «quegli apparecchi potrebbero essere usati per attacchi in Russia». Nonostante il Cremlino disponga di una difesa aerea fra le più fitte al mondo, l’impermeabilità non è garantita.

Solo i siti strategici sono protetti sistematicamente. Ecco perché nei giorni scorsi due elicotteri nemici hanno colpito a Belgorod, città vulnerabile, sprovvista di siti prioritari.

Che cosa accadrebbe se Washington accontentasse Kiev, concedendo anche gli F-15 e le cannoniere volanti, chiesti sottobanco da Zelensky? Sarebbe un casus belli prodromico a una guerra mondiale. Ma anche nell’ipotesi inverosimile che quei velivoli fossero concessi, occorrerebbero mesi di tempo per formare i piloti ucraini.

Con le continue sollecitazioni, sembra che il presidente ucraino sottovaluti i rischi di una mondializzazione del conflitto, gravida di conseguenze. Le capacità industriali belliche dell’Occidente non sarebbero nemmeno in grado di soddisfare la domanda ucraina: perfino i missili anticarro Javelin sono consumati in guerra a un ritmo superiore alla capacità produttiva.

Meglio affidarsi allora alle sanzioni, non meno dirompenti delle armi e meno rischiose politicamente. L’embargo tecnologico occidentale sta già compromettendo la tenuta di una ventina delle principali aziende belliche russe. Uralvagonzavod, il maggiore produttore mondiale di carri armati, avrebbe cessato la produzione dei modelli più avanzati e rallentato quella delle altre linee di mezzi.

Per mancanza di sistemi elettronici, prima forniti dalla Germania, anche le catene produttive dei missili antiaerei sono in affanno. Gli operai sono invitati a partire in guerra, come operatori dei sistemi antiaerei, o congedati senza stipendio. Alcuni cantieri navali sono fermi.

L’armata rossa non potrà reggere un conflitto prolungato, ad alta intensità, per tanti motivi, uno fra tutti l’impossibilità di ripianare le perdite, pari ormai al 25% del totale ingaggiato in teatro. Anche se Putin proclamasse la mobilitazione generale, cooptando 2 milioni di riservisti potenziali, non potrebbe armarli: i magazzini pieni di armi non sono sufficienti e non tutti i sistemi disponibili sono efficienti. Meglio non provocare ulteriormente l’orso ferito, con ulteriori forniture di armi all’Ucraina, pericolose e inutili.

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