sabato 30 agosto 2014
Nel villaggio iracheno già 500 famiglie. Crescono i profughi.
INTERVISTA L’ambasciatore iracheno alla Santa Sede: «Sono come un tumore»
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I primi sono rientrati sabato scorso. Domenica un gruppo di fedeli aveva potuto partecipare alla Messa nella Cattedrale di San Giorgio. Gli altri – la parte più numerosa – sono arrivati tra mercoledì e giovedì. Un fiume di donne, uomini, bambini, anziani ha percorso, a ritroso, la strada fatta quel 5 agosto, per sfuggire ai miliziani dello Stato islamico (Is). E dal Kurdistan, dove avevano trovato rifugio, cinquecento famiglie hanno fatto ritorno ad al-Qosh, piccolo cuore cristiano della Piana di Ninive. Là, prima dell’avanzata jihadista, vi risiedeva un migliaio di nuclei familiari della minoranza, custodi di una storia millenaria. Ad al-Qosh si trova la scuola cristiana fondata da Mar Micha nel IV secolo. E, dalle montagne di rocce che circondano la cittadina, spunta la sagoma affilata del monastero di Rabban Hormizd. Da qui, i patriarchi d’Oriente amministravano una Chiesa fiorente e diffusa fino all’India e alla Cina. Una tradizione impressa ormai nel Dna della comunità. Che, nonostante la furia estremista, non intende rinunciarvi. Per questo, in centinaia hanno voluto rientrare non appena la bandiera curda ha ripreso a sventolare su al-Qosh. Sono tornati “leggeri” come erano partiti: niente bagagli, appena qualche fagotto sulla testa. Eppure, non si sono persi d’animo. Nel monastero di Nostra Signora delle Messi – lo stesso che ospita l’orfanotrofio maschile e la biblioteca con migliaia di antichi manoscritti in lingua aramaica – i “al-qoshnaye”, così si chiamano gli abitanti, hanno organizzato un centro di distribuzione di aiuti per le famiglie che hanno perso tutto nell’esodo. E anche per sfollati di villaggi vicini. Una generosità in linea con la tradizione della cittadina che, negli anni Novanta, accolse centinaia di profughi di Baghdad e Mosul. Non a caso, dopo il Duemila, la popolazione è raddoppiata: tanti hanno cercato ospitalità in questa regione, sfiorata solo marginalmente dalla violenza in cui era precipitata la nazione. Poi, dopo la proclamazione del Califfato, la barbarie ha fagocitato la Piana. Costringendo i cristiani e le altre minoranze alla fuga. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), quest’anno oltre 1,6 milioni di iracheni ha dovuto lasciare le proprie case a causa delle violenze, oltre la metà – 850mila – nel solo mese di agosto, da quando si è stretta la morsa jihadista. Nella vicina Siria – nel cui nord sorge l’altra metà dello Stato islamico –, gli sfollati interni hanno raggiunto ormai la drammatica quota di tre milioni. Metà dei al-qoshneye, dopo quasi un mese da profughi, è potuto tornare. E combatte con ostinazione per recuperare un po’ di normalità. Il parroco della Cattedrale, padre Ghazwan Sahara, è stato il primo a rientrare, da Dohuk, dove si era rifugiato dopo l’avanzata jihadista. Ha voluto essere ad al-Qosh il giorno dell’Assunta, per far suonare le campane anche se la cittadina era semideserta. È stato lui a recuperare la croce, rimossa dallo Stato islamico. E a rimetterla sul campanile di San Giorgio, domenica, in una toccante cerimonia. Alle commozione di molti si mescolava il dolore per i fratelli di Telkepe, Qaraqosh, Bartelle, Karmalesh e Mosul, ancora nei campi profughi. Perché, a differenza di al-Qosh, queste cittadine restano sotto il pugno di ferro dei jihadisti.
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