venerdì 14 ottobre 2011
​Il continente nero possiede numeri e potenzialità per uscire da una situazione di «schiavitù» della sussistenza: da un lato serve però l’assistenza tecnica per sfruttare le risorse, dall’altro la promozione delle idee dei nuovi laureati.
«L’imprenditoria giovanile motore della crescita»
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Offrire il maggior sostegno possibile ai piccoli contadini e all’agricoltura locale per risolvere l’emergenza fame. Non ha dubbi che sia questa la soluzione alle ricorrenti carestie nel Sud del mondo Roger Thurow, per 30 anni al Wall Street Journal e oggi consigliere del Chicago council on global affairs sulle questioni di politica alimentare. Autore di «Enough: Why the World’s Poorest Starve in an Age of Plenty» (Perché i più poveri muoiono di fame in un’epoca di abbondanza), Thurow è stato ospite due giorni fa di una conferenza sul tema organizzata dalla Facoltà di Medicina veterinaria dell’Università di Milano e dal consolato americano.Come possono agire i piccoli agricoltori per lo sviluppo a lungo termine?Hanno un ruolo centrale, soprattutto considerando che in Africa la maggior parte delle popolazioni vive di piccola agricoltura. In Kenya il 60% del cibo è prodotto da contadini che hanno meno di un ettaro. Ecco, se avessero accesso anche solo a tecnologie di base - semi migliori, fertilizzanti, consigli su come lavorare al meglio i loro appezzamenti e dei finanziamenti - in appena una stagione si potrebbe raddoppiare o triplicare la produzione. Oltre a ciò bisogna ovviamente sviluppare le infrastrutture, i mercati. Questa è una grossa sfida per il mondo: sia alla Fao, sia negli Usa che in Europa si ritiene che entro il 2050 dovremo raddoppiare la produzione alimentare per tenere il passo con la crescita della popolazione e dei consumi.Perché finora i piccoli produttori sono stati finora ignorati?Ci sono diverse ragioni. Dal punto di vista storico c’è stato un forte sbilanciamento a livello di commercio internazionale delle derrate agricole, per cui in termini di potere abbiamo oggi da una parte i Paesi produttori e dall’altra le multinazionali. Si era giunti a pensare che siccome l’agricoltura nei Paesi poveri era scadente non fosse conveniente produrre in questi Paesi ma piuttosto far acquistare loro i prodotti realizzati altrove in modo più efficiente ed economico. Così negli anni Ottanta e Novanta le sovvenzioni agricole investite nei Paesi in via di sviluppo sono calate moltissimo, mentre cresceva di converso l’attenzione sugli aiuti alimentari. È stato un errore, perché questi due fattori, sovvenzioni per sviluppo a lungo termine e aiuti, dovrebbero invece camminare insieme.Ci sono segnali di cambiamento?Sì, in alcuni casi si sta cercando di sviluppare di più l’agricoltura locale, anche perché esiste un paradosso in alcuni Paesi colpiti da carestie. Nell’ovest del Kenya, ad esempio, produzione e raccolto quest’anno sono molto buoni, grazie alle piogge, mentre nello stesso Paese a poche centinaia di chilometri c’è la siccità e bisogno di aiuti. Chiaramente è molto più efficiente, veloce e meno costoso importare da regione a regione piuttosto che dall’estero. I piccoli agricoltori hanno ora degli incentivi a produrre di più perché sanno che se c’è una eccedenza di produzione c’è anche un mercato cui rivolgersi per destinarvi il surplus. Uno specifico programma del Programma alimentare mondiale dell’Onu, denominato «Purchase for progress», punta proprio su questo meccanismo per migliorare la qualità e la quantità della produzione locale sia in Kenya che in Uganda.Perché si è fatto poco in passato per lo sviluppo agricolo?In inglese diciamo: «Where there’s a will, there’s a way» («Se c’è la volontà, tutto si può fare»). A mancare è stata la volontà politica sia dei governi dei Paesi ricchi che di quelli in via di sviluppo. A ben vedere è una vergogna che il mondo debba ancora fronteggiare la fame nel ventunesimo secolo. Nei decenni passati, con la cosiddetta rivoluzione verde, avevamo assistito a uno sviluppo agricolo molto forte, ma poi a poco a poco l’attenzione verso certe politiche è venuta calando.Nel caso Somalia quanto ha pesato l’instabilità politica nell’attuale carestia?Molto, perché quando un governo è fragile anche la produzione alimentare non funziona. Le carestie spesso sono il risultato di crisi politiche, basti pensare anche solo alle resistenze sulla distribuzione degli aiuti. Se l’infrastruttura salta, anche gli aiuti non arrivano, tanto che poi assistiamo agli esodi di massa. Instabilità politica, conflitti e corruzione dilaganti in Africa sono fattori che portano alla fame, purtroppo spesso usata anche come strumento di potere.
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