giovedì 2 settembre 2021
Negli ani '90, volevano ricondurre il Paese al VII secolo. Dal fallimento hanno imparato a scendere a patti con la tecnologia. Il salto dalla tastiera al governo di uno Stato è, però, enorme
File davanti alle banche di Kabul per ritirare il denaro agli sportelli

File davanti alle banche di Kabul per ritirare il denaro agli sportelli - Reuters

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A Khost, hanno sfilato portando sulle spalle delle bare vuote, avvolte nelle bandiere di Usa, Francia, Gran Bretagna e Nato. A Kandahar hanno portato in corteo i mezzi corazzati sequestrati alle truppe della coalizione. A Kabul hanno celebrato con razzi e spari. Così, nei giorni scorsi, i taleban hanno voluto dire all’Afghanistan e al mondo che sono tornati, a dispetto delle previsioni di strateghi, analisti, grandi potenze. Per i miliziani fondamentalisti è il «momento piacevole della vittoria», ha detto il loro portavoce, Zabihullah Mujahid. Quanto durerà, però, questo tempo di festa? Perché il successo è stato tanto schiacciante e fulmineo quanto ora è denso di incognite. Al contrario di ciò che scrive Carlos Gardel, vent’anni sono tutt’altro che niente nell’era vertiginosa della globalizzazione. La Kabul che gli estremisti si lasciarono alle spalle in tutta fretta nel 2001, non è la città in cui sono entrati trionfalmente il 15 agosto: la capitale di uno Stato sì povero e diseguale, ma comunque lanciato, pur in coda, nella corsa frenetica della modernità. Una parola quest’ultima tabù nel regime creato dal mullah Omar e seguaci negli anni Novanta. Il loro imperativo era ricondurre il Paese al VII secolo, la culla dell’islam. Per farlo, si dedicarono con slancio alla distruzione di qualsivoglia traccia di modernità, in ogni ambito. Incluso quello politico. Lo Stato, dunque, forma di organizzazione del potere nata sulle ceneri del Medioevo, andava abbattuto. E così fu. Le strutture amministrative, gli apparati burocratici, i sistemi di Welfare e di aiuti esterni, nonché di relazioni internazionali, furono ridotti in pezzi dalla furia anti-moderna dei fondamentalisti. Compito non difficile dato lo sfacelo dell’Afghanistan dopo il conflitto innescato dall’occupazione sovietica. Il crollo dello Stato, tuttavia, travolse i suoi artefici. Condannandoli a una repentina sconfitta. Quel fallimento ha marchiato a fuoco la generazione storica dei taleban.

A Kabul i taleban hanno sfilato per festeggiare il ritiro occidentale

A Kabul i taleban hanno sfilato per festeggiare il ritiro occidentale - Reuters


E questa lo ha trasmesso alle nuove leve, reclutate più nella galassia del radicalismo politico che nell’ansia purista del fanatismo religioso. La formazione radicale, dopo un lungo processo di ridefinizione, si è resa conto di dover cambiare strategia. La lotta alla modernità a tutto campo doveva diventare un combattimento selettivo, volto a eliminarne gli aspetti «perversi» e a preservare quelli sani. L’inizio della svolta – come sottolinea Vanda Felbad-Brown, direttrice del gruppo di lavoro sui gruppi insurrezionali della Brookings Institution – è avvenuto nel 2007, quando gli ex studenti coranici si sono appropriati dei primi rudimenti di tecnologia cellulare per diffondere un mix tra propaganda e minaccia in gruppi mirati di popolazione. Ora si districano senza difficoltà nelle varie piattaforme social. Dalla tastiera all’appartato statale, però, il salto è enorme. Proteste e file agli sportelli delle banche contro il tetto massimo ai prelievi di 200 dollari alla settimana, sono le prime avvisaglie. «I taleban non hanno esperienza di governo, nel senso di gestione della macchina amministrativa, economica, finanziaria di uno Stato moderno, oltretutto nell’epoca della post-modernità. Non conoscono la macroeconomia né la politica finanziaria. Non sanno nemmeno come costruire una rete elettrica efficiente», spiega Vanda Felbad-Brown. È, vero, sono stati al potere per cinque anni. Quella volta, però, puntarono tutto sul mantenimento dell’ordine. Un ordine brutale, spesso arbitrario ma comunque un’alternativa al caos. Proprio sul loro passato di garanti dell’ordine nonché di uomini incorruttibili hanno fatto leva, durante la lunga clandestinità, per conquistare consensi nell’Afghanistan rurale, dimenticato dalla “pax americana”, confinata nello spazio urbano. La “pars destruens”, però, è terminata tre settimane fa, a meno di non voler ripetere gli errori del passato. Passare alla “pars construens” – combinando modernità “lecita”, fondamentalismo religioso, gestione efficiente – implica problemi macroscopici. Una soluzione immediata per i taleban potrebbe essere quella di reclutare per il nuovo corso i tecnocrati del governo deposto. La sfida, però, è trovarle funzionari qualificati data la massiccia fuga di cervelli in corso, che rischia di azzerare il già esiguo gruppo di professionisti locali. «Se, poi, il grosso della formazione è, almeno a grandi linee, convinto della necessità di scendere a patti con la modernità, la scelta di quali aspetti concreti preservare e quali eliminare non è altrettanto univoca – conclude l’esperta del Brookings Institute –. I diversi orientamenti rischiano di trasformarsi in breve in fratture pericolose per un movimento già composito».

Soldato taleban a Kabul

Soldato taleban a Kabul - Reuters


Sarà la modernità a realizzare la sconfitta del gruppo ribelle capace di resistere all’offensiva dell’Armata rossa, prima, e alla potenza della guerra al terrore “made in Us” poi? O i taleban finiranno per trovare un equilibrio - moderno - con il loro “nemico” più caparbio? E se sì, pur restando al potere, non sarà stato quest’ultimo, in definitiva, a vincere? Interrogativi aperti, che evocano l’Aleph di Jorge Luis Borges: «Devastato il giardino, profanati i calici e gli altari, gli unni entrarono a cavallo nella biblioteca nel monastero e lacerarono i libri incomprensibili, li oltraggiarono e li dettero alle fiamme, temendo forse che le pagine accogliessero bestemmie contro il loro dio, che era una scimitarra di ferro».

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