mercoledì 3 agosto 2022
Per il governo l'abitazione colpita da un drone che ha ucciso il leader di al-Qaeda sarebbe stata vuota. Ma Washington conferma: prove sufficienti. Dietro l'attacco possibili scontri di potere
Taleban a Kabul

Taleban a Kabul - Ansa

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«Questo non è un posto per fare fotografie. Via, fuori, non potete stare qui». Il giovane, con la divisa militare e il volto coperto dal passamontagna, impugna con una mano il Kalashnikov e con l’altra fa cenno di andare. Inutile brandire passaporti e permessi. La «casa vuota» – secondo la versione fornita dal governo taleban – è off-limits. Là, nel pieno centro di Kabul, all’alba di domenica, si sarebbe consumato l’atto finale della tragedia cominciata l’11 Settembre 2001: l’eliminazione di Ayman al-Zawahiri da parte di un drone Usa. Questo ha annunciato, nella notte tra martedì e ieri, il presidente Joe Biden, con un discorso asciutto quanto sbalorditivo. «Giustizia è fatta», ha sottolineato. La Casa Bianca non ha dubbi sulla sorte del leader di al-Qaeda anche se, in mancanza di accesso al corpo, non potrà fare l’esame del Dna. La prova visiva nonché le testimonianze di molteplici fonti – come ha spiegato il portavoce John Kirby – sono una garanzia sufficiente.

L’Emirato islamico – questo il nuovo nome dell’Afghanistan nelle mani degli studenti coranici – non conferma. Il portavoce, Zabihullah Mujahid, ha, però, ammesso l’attacco statunitense, bollato come «violazione dei principi internazionali». Lo ha fatto anche il ministero dell’Interno, attraverso l’addetto alla comunicazione, Abdul Nafi Takor, che, però, ha negato vittime «poiché l’edificio era disabitato». Non potevano fare altrimenti dato che i segni del raid sono tuttora visibili: sulla struttura, adiacente all’ex market super-esclusivo Spinney’s alla banca Afghan Ghazanfar, un sottile strato di plastica verde copre le macerie del balcone dell’ultimo piano, quello dove – dice Washington – è stato colpito il successore di Osama Benladen senza provocare altre morti. L’attacco poi è stato avvertito distintamente dagli abitanti di Shirpur e dintorni che, alle 6.18 del 31 luglio, sono sobbalzati dal letto per la duplice esplosione. Il vicino ospedale di Emergency, immediatamente, ha attivato la procedura di rigore per soccorrere un numero considerevole di feriti che, però, non sono mai arrivati.

Per quarantotto ore, la girandola delle speculazioni su bersaglio e autore del raid hanno affollato media locali e reti sociali. Secondo alcuni, il Daesh avrebbe ucciso un comandante dei taleban, per altri, invece, sarebbero stati questi ultimi a colpire i rivali. Nessuno aveva pensato potesse trattarsi di Zawahiri. La capitale afghana, dunque, ieri, si è svegliata attonita. In breve, però, l’anomala normalità della “Kabul ai tempi dell’Emirato” ha soffocato lo stupore. C’era lo stesso caos calmo dei giorni precedenti. Quello di sempre. I marciapiedi erano affollati da una folla di ambulanti, mendicanti e anziani senza più forze nemmeno per implorare. Di fronte alle panetterie e ai ristoranti, mani di donne accucciate spuntavano dai burqa azzurri. Con stoica determinazione, i ragazzini stavano in agguato ai semafori, pronti a lanciarsi, ad ogni rosso, sugli automobilisti. Le bandiere bianche – simbolo del nuovo potere – sventolavano onnipresenti, a cominciare da Shash Darak, l’ex zona verde, oasi degli occidentali.

Non lontano dall’ex ambasciata Usa – ora territorio dei taleban –, c’è Shirpur, quartiere residenziale dove prima si concentravano politici, uomini d’affari e facoltosi faccendieri legati alla passata Repubblica. Ora vi abitano i vertici dell’Emirato. Non i giovani con i ciuffi ribelli rinchiusi in zucchetti di fortuna e i fucili sempre in vista che presidiano i continui check-point, ma i comandanti con le tuniche candide, i turbanti neri e l’inglese forbito. Se ne vedono diversi entrare e uscire, con l’inconfondibile passo cadenzato e marziale, dalla casa dove avrebbe vissuto Zawahiri. Nemmeno là, però, c’è il dispiegamento di forze che ci si aspetterebbe. Insieme al ragazzo con il passamontagna, si contano non più di una decina di guardie di basso rango, più annoiate che minacciose.

I vicini sfuggono la stampa, trincerandosi dietro il mantra dell’edificio disabitato. Alla domanda, se la palazzina appartenga effettivamente a Sirajjudin Haqqani, ministro dell’Interno ed eminenza grigia del governo, sgranano gli occhi. Eppure, fonti ben informate ne sono certe. Il che apre una serie di scenari su che cosa – retorica a parte – sia effettivamente accaduto e stia accadendo in seno alla galassia taleban. È stato Haqqani a “tradire” l’amico a cui avrebbe dato protezione contravvenendo il pur fumoso accordo di Doha, nella speranza di ammorbidire gli americani? O, più probabilmente, come sostengono fonti ben informate, è in atto un ridimensionamento di quest’ultimo e del relativo clan, sostenuto dal Pakistan, a vantaggio dello sfuggente emiro Hibatullah Akhundzada?

Il capo supremo – dato per tanti per morto – avrebbe cominciato a gennaio un’offensiva interna per riprendere in mano le fila del movimento con un ulteriore irrigidimento. Il discorso pronunciato alla Loya Jirga – la grande assemblea tribale – del mese scorso è stato emblematico in tal senso. Haqqani, però, non sembra disposto a farsi da parte. In questo scenario cangiante, la morte di Zawahiri per mano Usa può innescare una serie di variabili dagli esiti imprevisti. Chiuso il capitolo dell’11 Settembre, sembra aprirsene un altro.

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