giovedì 4 febbraio 2021
L'antropologo iraniano-britannico Kameel Ahmady era stato accusato di "collaborazionismo con governi ostili" per le sue ricerche su matrimoni forzati e mutilazioni genitali
L'antropologo iraniano-britannico Kameel Ahmady sulle montagne

L'antropologo iraniano-britannico Kameel Ahmady sulle montagne - Foto tratta dal sito di Kameel Ahmady

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Ha preso uno zaino verde e ci ha buttato dentro qualcosa da mangiare, un kit da barba, i suoi libri, un computer. Si è messo addosso vestiti caldi e scarpe pesanti, comunque inadatti ad affrontare il cammino che lo attendeva, nella neve alta un metro e mezzo contro il gelo tagliente delle montagne iraniane, ma meglio non dare nell’occhio. Si è guardato indietro: verso la prigione di Evin, a nord di Teheran, considerata un buco nero di tortura, dolore e ingiustizia, dove avrebbe dovuto restare per dieci anni. Ha fatto il primo passo in avanti. E poi un altro ancora. E poi migliaia di altri passi, fino ad arrivare, in salvo, a Londra.
Kameel Ahmady è un antropologo iraniano-britannico condannato dalle autorità della Repubblica islamica a più di nove anni di carcere e l’equivalente di 700mila dollari di multa con l’accusa di “collaborazione con un governo ostile”. QUI IL SUO SITO

Le ricerche in campo sociale

Nato nella comunità curda nella regione occidentale dell'Iran, quando aveva 18 anni era stato mandato dai genitori a studiare in Gran Bretagna, dove aveva acquisito la cittadinanza. Era tornato a Teheran nel 2010 per assistere il padre, concentrando le sue ricerche sui matrimoni infantili e le mutilazioni genitali.

L'antropologo iraniano-britannico Kameel Ahmady

L'antropologo iraniano-britannico Kameel Ahmady - Selfi su Wikicommon

L'arresto e la "tortura bianca"

Una mattina, era il 2019, un uomo ha bussato alla sua porta dicendo di essere il postino. Lui ha aperto e 16 Pasdaran lo hanno preso di peso, portato a Evin. “Durante l’interrogatorio, la guardia mi diceva, compiaciuta, che ero un soggetto ideale - ha raccontato Ahmady ai media britannici -: doppia cittadinanza, che è sempre una specie di colpa, là; di origini curde; con un background religioso sunnita (il Paese è a maggioranza sciita); mi occupavo di temi delicati e li portavo alla luce”. L’accusa di collaborazionismo è stato presto formulata. Ci hanno aggiunto, tempo dopo, imputazioni per molestie sessuali che in Iran non mancano quasi mai quando ci sono mezzo ricercatori o accademici da tenere in cella. Accuse che Ahmedy nega con la più totale fermezza.

L'antropologo iraniano-britannico Kameel Ahmady sulle montagne

L'antropologo iraniano-britannico Kameel Ahmady sulle montagne - Foto tratta dal sito di Kameel Ahmady

Le porte di Evin si sono chiuse alle sue spalle. “No, non mi hanno torturato nel senso più comune del termine – ha raccontato -. Ma mi hanno tenuto tre mesi in isolamento. E facevano con me giochi mentali di tutti i tipi: una pressione quasi insopportabile. Se mi dai questo, ti do quello. Un minuto di telefonata con la famiglia poteva costare settimane di negoziazione. Cinque minuti in più di aria fresca comportavano giorni interi di umiliazioni psicologiche”.

Dopo tre mesi lo hanno messo in libertà vigilata su cauzione. Alla fine del 2020 è arrivata la condanna. Subito è stato presentato il ricorso. E quando l'istanza è stata rigettata, Ahmedy ci ha pensato e ripensato: sapeva che scappare poteva costargli la vita. Se l’avessero ripreso. O per il freddo. “Ma sono curdo, conosco quelle montagne, i sentieri. Mi sono detto che non potevo rimanere in prigione dieci anni a guardare mio figlio crescere a distanza: avrebbe avuto 15 anni, quando fossi uscito. Se fossi uscito”.

Il viaggio. Una nuova vita in Gran Bretagna

​Non ha detto niente a nessuno. Ha preparato tutto in fretta e ha iniziato quel viaggio “molto lungo, molto buio e molto spaventoso” . Non ha indicato quale versante abbia percorso, Né se abbia ricevuto aiuto. Probabilmente, attraversato il confine è stato recuperato. In ogni caso, ce l’ha fatta. Ora è pronto a ricominciare in Gran Bretagna. “Con mia moglie, mio figlio, vogliamo solo ricostruire le nostre vite in pace”. Ma il pensiero a chi è rimasto a Teheran non lo abbandona mai. “So per certo – ha detto al New York Times - che la mia pena detentiva è lo strumento usato dai servizi di sicurezza iraniani per esercitare pressioni sulle poche persone che lavorano sui temi sociali nel Paese”. Sono una decina le persone con doppia cittadinanza attualmente detenute nelle carceri iraniane. Quello zaino, Ahmady, l’ha fatto anche per loro.

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