giovedì 6 novembre 2008
Al Grant Park di Chicago, davanti a migliaia di persone che hanno fatto anche viaggi di giorni pur di esserci, Obama lancia le su sfide. E tutti hanno fiducia in Barack, che non teme di pronunciare la parola «sacrifici». E aggiunge: «Ci saranno partenze false e delusioni, molti di voi non approveranno ogni mia decisione, ma ce la faremo».
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Thomas Collins non ci ha creduto fino all’ultimo. Con gli occhi incollati al mega schermo del Grant Park di Chicago che mandava in onda le proiezioni elettorali della Cnn, il 58enne agente assicurativo teneva il conto dei voti. Solo quando è stato assegnato con certezza l’Ohio, lo Stato in bilico che rappresenta più di ogni altro l’umore della classe lavoratrice bianca, e che da 50 anni fa da barometro della corsa alla Casa Bianca, si è lasciato andare ad un sorriso. «Allora è vero». Collins, cappello di feltro, giacca e cravatta, è nero, ed è venuto dal New Jersey. «La scelta era fra qui e Harlem, che è a un’ora da casa – spiega –, ma poi ho capito che questa tappa del viaggio degli afro-americani valeva un viaggio di due giorni. L’America ha finalmente voltato pagina».Accanto a lui c’è Jessie Cadet, una signora di mezza età, bianca. Il marito Jack agita un paio di maracas e lei gli ingiunge di smetterla: «Non sento cose dice l’altoparlante!». Quando sullo schermo compare una bandiera americana e il nome «Barack Obama, presidente», Jessie si morde le labbra per non piangere. «Dopo il mio matrimonio e la nascita delle mie figlie, questo è il giorno più bello della mia vita. È l’inizio di una nuova era». La galleria dei volti e di storie di questa nottata è quasi infinita. Ma il denominatore è uno: gioia, commozione, e aspettative altissime per il nuovo presidente. «Ora andrà tutto bene», riassume Kalim, un ragazzino afro-americano di 10 anni che porta in giro un cartello «Obama» più grande di lui e parla eloquentemente della crisi finanziaria. «Ora tutto è diverso – aggiunge con un sorrisone – ora anch’io posso diventare presidente».Ha ragione. Anche a lui, del resto, il neo-presidente martedi notte a Chicago ha promesso che «l’America è il Paese dove tutto è possibile». E che finalmente, dopo una lunga attesa, «il momento è giunto, il cambiamento è arrivato in America». A sentire queste parole tutti, a Grant Park, hanno annuito. Le telecamere si soffermavano sul volto striato dalle lacrime di Jesse Jackson, il reverendo battista paladino delle lotte civili dei neri. E poi su quello di Oprah, la star nera della tv che predica il miglioramento continuo di sé. Eric Daley, un operatore aeroportuale, che è nato a Chicago ma vive a Philadelphia, continuava a ripetere: «Quest’uomo porterà unione all’America, supererà le divisioni fra bianchi e neri, risolleverà il Paese». Quasi avesse sentito il suo appello, Obama, dal palco protetto da uno spesso vetro anti-proiettile, gli ha fatto eco: «Oggi gli americani hanno mandato un messaggio chiaro. Non siamo una collezione di Stati rossi e Stati blu. Siamo gli Stati Uniti d’America». Martedì notte però Obama non ha nascosto la consapevolezza del compito enorme che ha di fronte e delle speranze riposte in lui dai suoi elettori. «Anche mentre festeggiamo, sappiamo che abbiamo davanti a noi le sfide più grandi della nostra vita: due guerre, un pianeta in pericolo, la peggiore crisi finanziaria in un secolo – ha continuato –. La strada sarà lunga. La salita ripida. Potremmo non arrivare al risultato in un anno, e magari neanche in un solo mandato».Il nuovo comandante in capo dell’unica superpotenza mondiale ha anche avuto il coraggio di pronunciare la parola «sacrifici», nel presentare alla folla quello che chiederà agli americani. E non ha mancato di avvertire i suoi sostenitori, quasi a mettere le mani avanti, che «ci saranno false partenze e delusioni. Che molti di voi non saranno d’accordo con ogni decisione che prenderò in veste di presidente. E che il mio governo non potrà risolvere tutti i vostri problemi».A giudicare dalle espressioni della gente, però, sono parole che pochi sembrano notare. Quello che tutti ripetono, a festa finita, mentre sfilano lentamente verso i cancelli del parco, è altro. È la promessa con cui Obama li ha congedati: «Non sono mai stato tanto pieno di speranza come lo sono questa notte. Ce la faremo. Vi prometto che noi, come popolo, ce la faremo». «Sì, ce la faremo», ribadisce Thomas Collins, che dovrebbe affrettarsi per prendere il primo volo per Newark, ma invece si guarda attorno, assorbe ogni momento, si ferma a comprare una bandierina Obama-Biden come ricordo. «Se ce l’ha fatta lui, ce la possiamo fare tutti».
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