sabato 23 gennaio 2016
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Nell’ultimo rapporto sull’Iraq, le Nazioni Unite parlano di «violenza sconcertante», «barbarie» e «genocidio». Notizie raccolte sul campo da agenzie come l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), che in Iraq è guidato da Bruno Geddo, diplomatico delle missioni impossibili in regioni come Somalia, Yemen, Mauritania e adesso Baghdad. «Il conflitto in Iraq – osserva – è l’equazione da risolvere più complessa al mondo, persino più della Siria. Nei prossimi mesi avremo altre centinaia di migliaia di persone in fuga». Davanti ci sono scelte che tolgono il sonno, come quella su Mosul. Due le alternative: una «catastrofica», l’altra «apocalittica». La prima, dipende dalle sorti del conflitto. La seconda, dalla peggiore bomba a orologeria di tutta la Mesopotamia: la diga, che nel 2006 veniva definita dal genio militare Usa come tra le «più pericolose al mondo». C’è davvero il rischio che crolli? Secondo le autorità irachene no, secondo altre fonti internazionali è invece una possibilità. Se accadesse non c’è quasi niente che potremmo fare. L’ondata di piena distruggerebbe Mosul (circa 1,5 milioni di abitanti) entro tre ore. In 72 ore al massimo la piena arriverebbe fino a Baghdad e non c’è modo, vista la presenza del Daesh, di evacuare in anticipo la popolazione. E lo «scenario catastrofico»? A Mosul avverrà la “madre di tutte le battaglie”. La posta in gioco, tanto per il Califfato quanto per il governo iracheno e la coalizione internazionale, è altissima. A oggi nessuno può dire se si tratterà di un’offensiva rapida o di un assedio con tempi più lunghi. In ogni caso, insieme ad un pesante numero di vittime civili, dobbiamo aspettarci un massiccio afflusso di profughi. Tutto dipende dalle strategie in campo. Daesh potrebbe anche optare per una ritirata strategica, non prima di aver imbottito la città di ordigni e trappole esplosive. Anche in caso di assedio avremmo importanti spostamenti di popolazione, perché le truppe governative durante la marcia d’avvicinamento dovranno aprirsi la strada attraverso decine di piccoli villaggi da cui i civili fuggiranno con ogni mezzo. I vostri numeri: tra gennaio è ottobre 2015, 18.802 civili uccisi, 36.245 feriti, 3.2 milioni di profughi interni, 900mila bambini addestrati militarmente dal Califfato, schiavitù sessuale, lapidazioni e amputazioni decretate dalle corti del Daesh. Cosa potete fare per chi scappa? (LEGGI IL RAPPORTO)Abbiamo 20 campi nel Kurdistan e 25 nel resto dell’Iraq. Nel Paese ci sono però 3.430 insediamenti spontanei di sfollati. C’è un’intesa con le autorità curde, che però hanno esaurito la loro capacità di accoglienza. Occorrono nuovi campi profughi, ma quasi tutte le aree sono occupate dal Califfato. Esiste una possibilità, anche remota, di stabilire dei ricoveri nelle aree sottoposte al Daesh? Posso dire che abbiamo un campo sotto il loro controllo: 950 rifugiati siriani, 230 famiglie. Attraverso due ong locali è stato possibile mantenere attivo l’insediamento. Le famiglie ricevono due pagnotte al giorno, assistenza medica e 35 dollari al mese per le spese di sopravvivenza. A condizione di non mostrare il logo delle Nazioni Unite e di rispettare regole rigide, come quelle sulla separazione dei sessi a scuola e negli ambulatori medici. Le immagini degli yazidi che fuggono aggrappandosi agli elicotteri Usa non cessano di interrogare. Cosa ne è stato di loro? La minoranza yazida, che segue il culto di Zoroastro, si riduce sempre di più. Come le minoranze cristiane di assiri e caldei, che parlano ancora l’aramaico, la lingua di Gesù. Un nucleo di qualche migliaio di yazidi è però rimasto e resiste sulla montagna sacra di Sinjar. Lì ci sono 14 scuole, ma in 13 di esse viene adottato il piano di studi del Pkk, e i bambini vengono indottrinati alla guerra fin da piccoli. Molti di essi sognano di poter combattere e tanti tra loro diventano soldati in età ancora scolare. Ci sono famiglie che per sottrarli a questo destino organizzano baby-matrimoni per evitare che ragazzi e ragazze vengano arruolati. Ma la maggioranza degli sfollati yazidi, assiri e caldei vede ormai nell’emigrazione verso Europa, America e Australia la sola garanzia di sopravvivenza.
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