domenica 25 giugno 2017
A Sulaymaniya, nel monastero di Deir al-Maryam Adhra, i padri danno rifugio a curdi e arabi, cristiani, yazidi e musulmani arrivati da Mosul, Ninive e Kirkuk, in fuga dal Daesh.
Foto Sara Lucaroni

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SULAYMANIYA (KURDISTAN IRACHENO) Una bambina sfila con un contenitore di plastica alto quanto lei davanti al gabbiotto del soldato di guardia all’ingresso. Nel cortile del monastero di Deir al-Maryam Adhra il piccolo roseto e un rubinetto luccicano sfidando i 40 gradi già alle undici di mattina. Chiede se può prendere l’acqua. «Supas», grazie in lingua curda, prima di scomparire tra i vicoli della vecchia Sulaymaniya. Qui molti uccellini, per quanto piccoli, sanno già della sete, della fame, dell’amore, della confusione, della disperazione. Se lo raccontano agli altri e gli altri ascoltano, condividono il proprio viaggio, annullano le diversità, cancellano ogni solitudine. E il racconto diventa «musalaha», riconciliazione.


Lo sapeva il poeta persiano Attar che nel 1200 immagina il viaggio allegorico degli uccelli del mondo (gli uomini) alla ricerca del loro re (Dio) e che durante il percorso si raccontano parabole di vita emozionanti o terribili. Lo sanno i padri che qui in Kurdistan sono arrivati nel 2011, provenienti da Deir Mar Musa Al-Habashi, dove vive la comunità creata da padre Paolo Dall’Oglio, sulle montagne a nord di Damasco, in Siria.


Lo sanno i giovani rifugiati curdi e arabi, cristiani, yazidi, musulmani arrivati da Ninive, Mosul e Kirkuk che pochi giorni fa hanno recitato nella «Conferenza irachena degli uccelli», uno spettacolo ispirato proprio al capolavoro di Attar, curato dal regista tedesco Stefan Otteni col coreografo italiano Paolo Ragano.


Canzoni, improvvisazioni, monologhi e danze narrano l’epico «sperimentare le valli » della vita, ma soprattutto, quel che l’antico poeta sufi intendeva: al termine del viaggio, la scoperta che Dio è il grande «noi» allo specchio. «Non tanto dialogare, qui si fa qualcosa di più concreto, come seguire delle lezioni o fare un esame insieme. Sono speranzoso, i giovani ci riescono – spiega fr. Jens Petzold, fondatore e guida del centro insieme a suor Friederike Gräf –. Il nostro intento è contribuire ad un Iraq dove si vive insieme e non semplicemente accanto».


Da monastero e luogo per il dialogo inter-religioso per volontà dell’allora vescovo e oggi patriarca della chiesa caldea Louis Raphaël I Sako, a centro di accoglienza durante l’attacco di Daesh nel 2014, Deir al-Maryam Adhra ha accolto nell’emergenza oltre mille persone, tra cui le famiglie di Qaraqosh, vicino Mosul, sistemate fin dentro la piccola chiesa. Nel villaggio-caravan confinante con le mura esterne vivono ancora 150 persone, di cui 60 bambini impegnati in studio e attività di animazione.


Alcuni rifugiati collaborano alla vita del centro. In tanti, anche dal quartiere, partecipano ai corsi di lingue e ai progetti di formazione professionale. «Spesso cristiani e musulmani dicono: come posso parlare con lui, sono io quello nel giusto – racconta frate Jens –. Ma la nostra comunità è sempre stata molto curiosa dell’esperienza spirituale dell’Islam. E l’islam qui a Suleimaniya è molto interessato ad uno scambio anche perché al momento vive una crisi ed ha bisogno di spiegarsi e riflettere».


Intanto lo spettacolo inizierà un mini tour nei campi profughi del distretto e tanti ostacoli sono stati cancellati: dagli orari e precetti del Ramadan, fino al pudore per lo sceneggiare storie personali. «Padre Paolo ci guida. Io ci ho lavorato per 16 anni – riflette Jens –. Lui aveva una filosofia: non si tratta con l’istituzione, ma con la persona. Che sia ambasciatore, ministro, operaio, non importa, il dialogo è prima e sempre sul piano umano e sulla base del rispetto della libertà dell’altro. E a questo dialogo non c’è nessuna alternativa».


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