mercoledì 19 dicembre 2012
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​«Mi trovavo in uno dei tanti villaggi del Punjab devastato dalle alluvioni. Gli abitanti avevano perso il poco che avevano. Eppure la prima richiesta, quasi un’implorazione, non è stata per ottenere aiuti materiali. “Per favore, dite al mondo che non siamo tutti terroristi. Siamo gente onesta. Loro (i terroristi, ndr) sono una minoranza”. Sono “loro”, i fanatici a seminare morte. La maggioranza della popolazione è di un’accoglienza disarmante». Pietro Fiore vive a Islamabad dal 2010, dove coordina i progetti di Cesvi, Ong della rete Agire. Il resto del Paese, però, lo conosce bene: l’ha girato da Nord a Sud per portare i soccorsi dopo le inondazioni che negli ultimi due anni hanno colpito 20 milioni di persone, su un totale di 180. E avviare programmi agricoli e di ricostruzione. Viaggi rischiosi, in un Paese dove c’è una forte presenza di gruppi integralisti filo-taleban. Eppure Fiore ci tiene a ribadirlo: «La gente è disponibile. Anzi, quando ci sono stati momenti di tensione come dopo l’uccisione di Benladen, l’attacco a Malala o le proteste per il film contro Maometto sono state proprio le comunità locali a dirci in quali zone era meglio non recarci e in quali potevamo muoverci con tranquillità». Certo, esistono dei codici di condotta rigidi da seguire per chi lavora in aree del mondo “difficili”, a causa della miseria e ingiustizia diffuse, della presenza di formazioni ribelli o di tensioni etniche e politiche. «Gli operatori umanitari– aggiunge Fiore – non sono sprovveduti: prima di partire facciamo un addestramento e dobbiamo rispettare una serie di regole di sicurezza che non eliminano il rischio di attacchi ma almeno lo riducono». Il principio cardine è non esporsi inutilmente. Nel vestire, nel parlare, nel rapportarsi con la gente. Oltre al fatto di costruire un solido legame di fiducia con lo staff locale. «Sono stati proprio i nostri operatori pachistani la “chiave d’accesso” con le comunità di villaggio», racconta Anna Nava, neuropsicologa di Medici senza Frontiere (Msf) che in Pakistan ha avviato il primo progetto di salute mentale per l’organizzazione, tra luglio 2011 e gennaio 2012. «Volevamo curare i traumi dei sopravvissuti alle alluvioni e degli sfollati, aiutandoli a ricostruire il tessuto comunitario», aggiunge. Per questo, ha visitato decine e decine di villaggi isolati dello Swan, raggiungibili solo in barca. «Il fatto di avere con me dei locali che parlassero la lingua e conoscessero le tradizioni è stato fondamentale per stabilire un dialogo». Che c’è stato e proficuo. Anche se la dottoressa Nava partiva “svantaggiata” in quanto donna, in una cultura tribale impregnata di maschilismo. «Eppure non ho avuto particolari difficoltà. Certo, la fiducia va costruita passo a passo. Stando molto attenti alla sensibilità dei locali su alcune regole culturali o religiose. Ad esempio, tenevo sempre il capo coperto anche in ufficio, in segno di rispetto nei confronti dei locali maschi presenti. Lasciavo, inoltre, che fossero loro a proporre riunioni uniche e non separate per generi. Non li ho mai forzati». Sono molti gli esempi di cautela citati dalla neuropsicologa. Dallo spostarsi in convoglio all’evitare gli spostamenti negli orari di preghiera in modo da consentire allo staff locale di poter partecipare alle funzioni. «È fondamentale utilizzare la massima sensibilità. Quando si va in un villaggio, ad esempio, è bene presentarsi prima alle autorità tribali, in modo da spiegare il progetto e non essere percepiti come “intrusi”», afferma. Anche l’operatrice di Msf, però, ci tiene a sfatare il mito del Pakistan come “giungla selvaggia”. In base alla sua lunga esperienza – tra l’altro ha lavorato in Sierra Leone – Nava dichiara: «Sono più pericolosi del Pakistan, nazioni dove c’è un alto tasso di criminalità, come Haiti o Sierra Leone. Perché la delinquenza è molto più imprevedibile».
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