giovedì 28 dicembre 2017
Per farsi ricoverare bisogna presentarsi con siringhe e garze comprate a prezzi altissimi al mercato nero A Caracas la lista di attesa per gli interventi «urgenti» ha superato i 7.000 nomi
Un bambino malato nelle strade di Caracas in cui chiede di essere curato e chiede pace e salute (Ansa/Ap)

Un bambino malato nelle strade di Caracas in cui chiede di essere curato e chiede pace e salute (Ansa/Ap)

COMMENTA E CONDIVIDI

Karenia Peralta è in piedi all’accettazione dell’Ospedale clinico universitario di Caracas, circondata da borse e scatoloni. La giovane ne solleva una da terra, ma quando l’addome rigonfio le impedisce di issarla fino al bancone, cerca con gli occhi l’uomo al suo fianco, che gliela prende dalle mani. «Ho trovato pannolini, guanti sterili, camici per le ostetriche, antibiotici», elenca la ragazza all’infermiera, mostrandole alcuni pacchetti di plastica. Poi s’interrompe con una smorfia di dolore.

Dieci minuti più tardi, Karenia passa, appoggiata al braccio del marito, attraverso le porte di metallo del reparto di ostetricia. Ce l’ha fatta. È stata ammessa in tempo per il parto. Da almeno un anno c’è un solo modo per essere ricoverati al principale nosocomio della capitale venezuelana. Presentarsi con le forniture che mancano ai reparti: siringhe, cateteri, cotone, garze, antidolorifici, persino soluzioni saline per le flebo e anestetici, che si trovano solo sul mercato nero, in dollari e a prezzi esorbitanti. Ma anche per chi ci riesce, ottenere un letto in una corsia in Venezuela non significa vincere la lotteria. Piuttosto, buttarsi a capofitto in un pericolosissimo giro di roulette.

Da quando, nel 2014, il Paese ha cominciato ad avvitarsi nella spirale distruttiva di una grave crisi economica accompagnata da una radicale svolta autoritaria, carenze devastanti di medicinali e materiali, blackout quotidiani, assenza di cibo e condizioni igieniche da cliniche da campo hanno reso il rischio di infezioni e di morte nei centri di salute venezuelani fra i più alti del mondo. Secondo il primario per le malattie infettive dell’Ospedale clinico universitario, Julio Castro, la mortalità materna in Venezuela si è impennata del 65% in un solo anno, triplicando in alcuni Stati.

Da luglio, inoltre, 30 neonati sono morti nell’ospedale, la maggior parte a causa di tagli all’elettricità che bloccano improvvisamente i respiratori dei bimbi prematuri o l’aria condizionata quando le temperature esterne sfiorano i 40 gradi. Il bilancio sarebbe stato ben più alto, se gli operatori sanitari non si fossero votati a un lavoro instancabile, a volte eroico. «Passare delle ore pompando aria a mano nei polmoni di una creatura di due chili è diventata la norma – dice sempre Castro – le nostre infermiere fanno turni lunghissimi. Vigilano costantemente alla notte, quando le interruzioni di corrente elettrica sono più frequenti. Ma non possono fare miracoli».

Una camminata in sordina nel reparto geriatrico, con la scusa di visitare un paziente, conferma questa realtà dickensiana. Passata la cardiochirurgia, chiusa da un anno per mancanza di materiali e perché l’impossibilità di sterilizzare i teatri operatori rendeva gli interventi «irresponsabili», occorre attraversare una pozzanghera di acqua fetida che ristagna di fronte alla porta di un bagno. Dall’altra parte, ci sono decine di stanze vuote: è il reparto traumatizzati, che da metà novembre l’ospedale non ne accetta perché non può più fare radiografie.

La settimana scorsa, inoltre, non è stata fatta alcuna operazione e la lista di attesa per gli interventi «urgenti» ha superato i 7.000 nomi, di cui 600 bambini. Mezza decina di letti è ammonticchiata di fronte agli ascensori, fermi. La maggior parte ha visibili macchie di sangue, ma, in assenza di disinfettanti per pulirli, li si mette da parte. Tre sacchi con la scritta «rifiuti biologici» sono ammassati in un angolo. Le mosche ronzano ovunque. «Non c’è iodio per trattare il cancro alla tiroide, non ci sono farmaci per la chemioterapia – ammette sconsolato José Manuel Olivares, direttore dell’organizzazione non governativa Medicos por la salud –. Non ho più nebulizzatori per i neonati». Olivares ha calcolato che in Venezuela manca oltre il 98% di farmaci di base come vaccini, antibiotici, ansiolitici e antivirali. E che il 63% degli ospedali pubblici non ha acqua potabile, il 51% non ha letti igienici, il 64% non ha latte artificiale per i neonati. Ancora peggio, il 71% degli ospedali ha già chiuso per mancanza di materiali.

Dopo 18 anni di “rivoluzione bolivariana” che ha promesso una distribuzione più equa della ricchezza petrolifera del Paese, sicurezza alimentare e cure gratuite per tutti, i venezuelani, oggi, non hanno il diritto di ammalarsi. Eppure la loro salute peggiora di giorno in giorno, anche a causa di una grave, diffusa malnutrizione e dell’iperinflazione che ha reso, fra l’altro, difficile per moltissimi festeggiare il Natale. Preparare una zuppa tradizionale per cinque persone, ad esempio, costa più di 200mila bolivar: la metà di un salario minimo mensile. Ma negli ultimi anni, nella misura della qualità di vita e della salute, il Paese ha fatto un salto all’indietro di oltre sei decenni. Se nel 1945 il Venezuela ebbe il lusso di aver sradicato le principali malattie infettive, ora le vede riapparire con prepotenza e scopre di aver fatto, dal punto di vista sanitario. Il virus della chikungulla, ad esempio, che è trasmesso dalle zanzare e provoca febbri alte e debilitanti dolori articolari, fino ai primi anni del 2000 era quasi scomparso, ma nel 2015 e 2016 ha colpito quasi 5 milioni di venezuelani. Nello stesso periodo il 10% della popolazione ha contratto zika o dengue. La difterite è ricomparsa in nove Stati. I casi di malaria si sono moltiplicati sette volte nel 2016, interessando 246mila persone, ma si calcola che quest’anno i colpiti supereranno il mezzo milione.

L’epidemia di malaria, iniziata nelle giungle dove si estraggono oro e diamanti dello Stato di Bolivar e rapidamente estesasi ad altri 17 Stati, di recente è approdata a Caracas. «È difficile controllarla, stiamo perdendo terreno», dice Castro, aggiungendo che, se il regime di Nicolás Maduro non rivela dati ufficiali sulla crisi, il Parlamento venezuelano, controllato dall’opposizione, ha già decretato la situazione di emergenza per le malattie infettive. Per chi vuole evitare gli ospedali e prova a curarsi a casa, la situazione non è migliore. «Ho girato dieci farmacie per cercare antibiotici per la polmonite che mi hanno diagnosticato una settimana fa – spiega una donna di 42 anni del quartiere popolare di Santa Elena – ma non ce ne sono, né ho trovato le pastiglie per l’ipertensione di mia madre, che non le prende da dieci giorni. Rischia la vita ogni giorno».

Solo chi ha accesso ai dollari americani, grazie a parenti che li inviano dall’estero, riesce a comprare medicinali sul mercato nero. È così che Karenia, che ha una sorella a Panama, ha trovato il materiale che le ha garantito l’accesso alla sala parto. Suo figlio Jesus vi è nato senza complicazioni. Ma lei e il marito non rischieranno più di doverlo portare in una corsia di Caracas. Non appena il piccolo avrà un passaporto, abbandoneranno il loro Paese. (2. Fine. La precedente puntata è stata pubblicata domenica 10 dicembre)

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI