venerdì 6 aprile 2018
È scontata la vittoria del partito di governo, dato nei sondaggi al 50%. L'opposizione si compatta, ma è ferma al 15%. L'immigrazione resta il tasto più battuto
Budapest è tappezzata di manifesti contro i migranti: un cartello stradale con l'immagine dell'esodo di migliaia di disperati (Ansa)

Budapest è tappezzata di manifesti contro i migranti: un cartello stradale con l'immagine dell'esodo di migliaia di disperati (Ansa)

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L’appuntamento è in un appartamento abbastanza anonimo di Pest. È qui che una trentina di attivisti del Közös Ország Mozgalom (Kom), il Movimento Paese per tutti, si ritrova in un tardo pomeriggio di fine campagna elettorale per tirare le somme. I muri sono bianchi e spogli. Eccetto per un pezzo di carta con scritte a mano le «regole»: mantenere l’attenzione, ascoltare gli altri, no alla violenza, niente foto né video. «C’è chi ci chiama comunisti e agenti di Soros, ma è più semplice di così: vogliamo solo non restare a guardare», confida uno dei coordinatori. Quel che è paradossale, in quest’atmosfera semicarbonara, è che il Kom non è in lizza per nessuno dei 199 seggi del Parlamento ungherese.

Eppure, davanti a un’opposizione che appare ancora incapace di infastidire la leadership del controverso (e, secondo i critici, illiberale) premier Viktor Orban, gruppi di «resistenza pacifica» come il Kom hanno guadagnato sempre più interesse. Per mesi il Movimento guidato dal 32enne Márton Gulyás ha invocato una riforma dell’attuale sistema elettorale, considerato ingiusto, a favore di un sistema più proporzionale e rappresentativo dell’elettorato. Fallito quest’obiettivo, ha cominciato a organizzare dibattiti tra candidati e a lanciare sondaggi locali. «Lo scopo è stato quello di informare gli elettori dei vari collegi su quale candidato ha le maggiori possibilità di battere il candidato di Fidesz, il partito di Orban – ammette un attivista –. Quello che più ci importa, in questo momento, è il voto utile». Domenica l’Ungheria torna alle urne e Fidesz naviga tranquilla nei sondaggi tra il 45 e il 50% delle preferenze, con l’opposizione frammentata e staccata di 30 punti. Eppure un campanellino d’allarme, nella testa del premier, è risuonato appena sei settimane fa. Alle comunali di Hodmezovasarhely, cittadina del sud considerata una roccaforte del partito al potere, il candidato indipendente Peter Marki-Zay ha vinto con il 57,5% dei voti, grazie all’alleanza di tutti i partiti di opposizione.

Certo è difficile che lo schema del “voto utile” possa ripetersi ovunque anche su scala nazionale, ma questa, a ben vedere, sarebbe l’unica carta in mano ad un’opposizione che va, solo per citare i gruppi principali, dai populisti xenofobi di Jobbik (dati intorno al 17%) ai social liberali di Coalizione democratica ai socialisti di Mszp ai verdi di Dialogo. Questi ultimi due movimenti sono quelli che più credono nel “voto utile”, tanto da avere un unico candidato per la premiership, Gergely Karácsony, oltre ad aver unito le forze nei 106 collegi uninominali, scegliendo di sostenere l’esponente più forte delle due liste. Le probabilità di successo dell’opposizione, secondo Citibank, sono del 10-15%: non molte ma sufficienti a donare un’inaspettata nota di incertezza in un’elezione altrimenti scontata.

È comunque talmente frammentata, l’opposizione, che una delle preoccupazioni principali del 54enne Orban in questi mesi è stata soprattutto quella di dare un nome e un volto al suo nemico. Individuato, ben presto, nel magnate George Soros, alla guida di «un impero che sta lavorando specificamente, con l’ausilio di duemila “mercenari” e attivisti pagati in tutta l’Ungheria, per trasformare l’intero continente e tutti i suoi Stati membri in Paesi di immigrati». Orban ha sottolineato di aver «schedato i nemici della nazione» e la minaccia temono molti sia quella di una “rivalsa” dopo il voto. Che l’immigrazione sia il tasto su cui più ha battuto il partito al potere è evidente da ogni manifesto elettorale che campeggia per le strade di Budapest. Nelle immagini della propaganda di Fidesz, un segnale stradale di stop a grandi caratteri si staglia su una moltitudine di giovani presumibilmente stranieri, a restituire le proporzioni della supposta «invasione». E d’altronde negli ultimi anni Orban, che pure si è posto a difesa dei «valori cristiani», non ha lesinato le invocazioni a proteggere «l’omogeneità etnica ungherese», rispondendo con l’innalzamento di muri al flusso di stranieri in arrivo alle frontiere e aprendo un contenzioso con l’Ue sulle quote dei migranti da accogliere. Altra questione è la vicinanza sempre più stretta alla Russia di Putin, dapprima criticata e, poi, invece, “corteggiata”, tanto da fruttare importanti investimenti di Mosca.

Alle critiche il premier, che cerca il terzo mandato consecutivo, fa spallucce e risponde, semmai, opponendo i risultati macroeconomici della sua “Orbanomics”, le riforme che hanno migliorato le finanze pubbliche rispetto al 2010, quando il Paese ha rischiato un collasso di debiti in stile greco. Alimentata dal boom delle costruzioni, dagli investimenti stranieri e dai fondi europei, l’economia è cresciuta del 4% nel 2017. Un’analisi sull’aliquota unica al 15%, condotta dagli economisti Csaba Toth e Peter Virovacz, ha però concluso che i suoi maggiori beneficiari sono i contribuenti più abbienti e che sta aumentando il solco tra ricchi e poveri. Secondo un rapporto del think tank Gki, sono circa un milione gli ungheresi che hanno visto calare il proprio reddito negli ultimi otto anni.

Di più: gli ultimi dati Eurostat mostrano che l’Ungheria è dietro agli altri Paesi centro-europei – Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia – in termini di Pil pro capite. Laszlo Reisch, 48 anni e padre di due figli, lavora per un programma governativo e si sente bloccato dal lato sbagliato dal crescente divario sociale. «Insieme allo stipendio di mia moglie possiamo tirare avanti, così da non dover andare a rovistare nella spazzatura», confida. Domenica voterà comunque per Orban perché, dice, non vede alcuna alternativa credibile. Il programma in cui è impiegato è lo strumento principale usato dal governo per aumentare l’occupazione tra gli ungheresi con minori competenze e arruola 165mila persone. Lo stipendio è equivalente a 260 euro lordi, a fronte di una paga minima di 445 euro. A preoccupare Reisch è l’eventuale incertezza economica che potrebbe arrivare con un nuovo esecutivo. «Ci sono buoni aspetti di questo governo e ce ne sono di cattivi – riassume con un po’ di amarezza –. È quasi come il programma di lavori pubblici: non può andare a vantaggio proprio di tutti».

I tre fronti

VIKTOR ORBAN A 54 anni insegue il suo terzo mandato consecutivo. Leader dei conservatori di Fidesz, eletto nel 2010 con una maggioranza di due terzi, Orban ha modificato la Costituzione in senso più conservatore e “patriottico” e diluito i poteri della Corte costituzionale. Nel 2015, al culmine della “crisi dei migranti”, ha deciso la costruzione di una barriera al confine meridionale con la Serbia, per fermare l’arrivo di migliaia di persone. Ha migliorato le finanze pubbliche e la crescita economica, ma i critici sottolineano la vasta corruzione in molti apparati statali.

GÁBOR VONA A capo dei populisti xenofobi di Jobbik, il 39enne è stato insegnante di storia. Guida il suo partito, di cui è tra i fondatori, ormai dal 2006. Dopo che negli anni scorsi Jobbik si era resa protagonista di attacchi xenofobi contro la comunità rom e contro gli ebrei, ultimamente seguendo le direttive del suo leader il partito è virato su posizioni più moderate e meno ideologiche. Punto centrale è la lotta alla corruzione negli affari pubblici; frequenti anche gli slogan contro Bruxelles.

GERGELY KARÁCSONY Ha 43 anni ed è stato designato come candidato unico alla premiership da parte della piattaforma che vede unito il partito socialista di Mszp e i verdi di Dialogo. Già deputato tra il 2010 e il 2014, negli ultimi quattro anni è stato a capo dell’amministrazione locale di Zugló, 14esimo distretto della capitale Budapest. Il suo lungo programma, presentato nei giorni scorsi e formato da 100 punti, ha come obiettivo dichiarato quello di «ridare la libertà di decidere il futuro della nazione ad un’Ungheria social democratica».

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